di Valeria Cicilese
Provo una rabbia sorda, disperata. Avete sulle mani il sangue di centinaia di persone, ma la cosa non vi tocca, non vi tocca mai. Neppure oggi, sono certa, vi sentite responsabili di una morte che allusione su allusione, dandovi di gomito, anche voi avete causato. Tiziana Cantone aveva 31 anni, si è suicidata in preda alla più profonda disperazione, sconfitta dal peso di una lettera scarlatta, gigantesca, che le hanno cucito addosso, come un’insegna luminosa al neon costantemente accesa. Si è impiccata perché le è stato negato tutto. Si è impiccata perché non aveva pace, non le davano pace. Si è impiccata, perché un “troione” non ha alcun diritto, non vale niente. Si è impiccata in un paese in cui le donne vengono ipocritamente giudicate in base alla loro capacità di “tener chiuse le gambe”, proteggendo un’ipotetica somma virtù che ne decreta il valore. E, beninteso, ciò accade alle donne e solo alle donne.
Protagonista indiscussa della vicenda è la trappola malsana che sta dietro il bulimico consumo di video, immagini e gif che si susseguono nel carosello esasperato (ed esasperante), continuo, della rete: la disumanizzazione. Tiziana non era più una persona, era diventata un personaggio da social network, un tormentone passeggero, ma mai davvero obliato. Non possedeva più la sua immagine, il suo nome, la libertà di movimento, la serenità. Tiziana è morta per un video in cui faceva un pompino, in un modo in cui siamo bombardati dalla pornografia e in cui l’oscenità va in prima serata.
Nel 2016 si è suicidata come una Lucrezia del 509 a.c, si è uccisa con il “brochos” (sì, perché l’impiccagione è una morte storicamente femminile), come Giocasta, come Elena. Tiziana una voce ora non ce l’ha più e io vorrei urlare. Continuerò a fare ciò che ho sempre fatto, da oggi anche per lei.