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Tempo degli uomini, spazio della società

L’individuo, ogni individuo, non è che un limitato segmento di una lunghissima trama che si muove e si evolve nello spazio e nel tempo.

(Danilo Mainardi)

Nel 2006 alla Lancaster University ha inizio il mobility turn: la svolta della mobilità. Diversi studiosi di geografia, antropologia culturale e sociologia si rendono conto che il concetto di spazio, prerogativa fondamentale della geografia, non può più essere analizzato indipendentemente da quello di movimento, perché ormai evidentemente legati da una strettissima relazione. In questo momento storico il mondo sembra cambiare giorno dopo giorno, ogni anno che passa sembra trascinare via con sé buona parte degli elementi che lo hanno caratterizzato, lasciando un margine di solo cambiamento. Ciò che prima mutava da decennio a decennio, e che portò nel gergo comune a parlare di anni ’30, ’40, ’50, fino ad arrivare all’ultimo decennio, gli anni ’90 (durante i quali è nato chi vi scrive) adesso sembra cambiare anno dopo anno.

In un’epoca tanto mutevole ed irrequieta è un’assoluta priorità stravolgere l’idea del movimento, inteso come qualcosa di lineare e controllabile che possa rientrare sotto la giurisdizione di uno Stato, o peggio, di uno Stato-Nazione. Bisogna aprirsi all’imprevedibilità dello spazio e adattarlo alle esigenze di movimento attuali: la dislocazione deve entrare ufficialmente a far parte delle categorie geografiche.

L’antropologo statunitense James Clifford critica l’approccio adottato fino a quel momento dai geografi e dagli antropologi, dediti alla ricerca e allo studio delle “radici”. Il mondo moderno, costantemente in movimento, non può essere studiato ed affrontato intendendolo semplicemente come un’immensa matassa di radici, saldamente ancorate al suolo sottostante. Oggi è necessario parlare di radici in movimento, infatti Clifford tratta di roots-roates (radici-strade), proponendo il modello del cronotopo, un luogo che metta in relazione spazio e tempo. A sostegno di questa tesi, Paul Gilroy propone nel suo Black Atlantic il cronotopo della nave, rifacendosi alle posizioni di uno dei più celebri filosofi del XX secolo, Michel Foucault, che vedeva nella nave il teatro di un rito di passaggio che da un lato sembra avere una sede precisa, un hic ben definito, ma che contemporaneamente è altro, è altrove. Anche Meaghan Morris propone un cronotopo, il motel, avendo cura però, a differenza di Clifford, di mettere in primo piano le differenze di condizione legate alla classe, al genere e all’erronea definizione di “razza” che caratterizzano gli individui protagonisti di queste dislocazioni.

La concezione dello spazio e del tempo nelle odierne società occidentali e capitaliste è già intimamente diversa da quella che si aveva 50 anni fa. Per quanto riguarda la dimensione del tempo, fino alla rivoluzione industriale era considerato ciclico, scandito dall’alternanza delle stagioni, da cui dipendeva l’agricoltura, principale mezzo di sussistenza della popolazione.

Con l’industrializzazione il trascorrere delle ore, dei minuti e dei secondi diventa sempre più lineare, la passività viene erosa, fino ad affermare che “il tempo è denaro”. Vengono costruite città sempre accese, attive 24h su 24, illuminate costantemente a giorno dalle insegne dei negozi e dai fanali delle automobili che sfrecciano sulle strade. Il giorno e la notte diventano più che mai convenzioni, non più rigorosamente scanditi dall’alba e dal tramonto, ma semplicemente dal ticchettio dell’orologio che impone il risparmio e l’ottimizzazione di ogni singolo secondo.

Per quanto riguarda lo spazio, prima della rivoluzione industriale era poco utilizzato: le città erano protagoniste, spesso isolate dalle loro mura, e al difuori di esse vi erano solo campagne, il primo vero stravolgimento del paesaggio naturale operato dall’uomo. Nel Novecento, in particolare, comincia il rapido processo di conurbazione e le città arrivano quasi a toccarsi, soffocando le campagne e parte del paesaggio naturale, ormai riscontrabile soltanto ai Poli e in poche altre regioni del mondo. Attraverso mezzi di trasporto e di comunicazione sempre più rapidi, lo spazio sembra ridursi progressivamente, le barriere vengono abbattute e i soli confini rimasti sono quelli del pensiero e della mente umana. Prima le ferrovie, poi le automobili, le autostrade, gli aeroporti, internet sconvolgono la relazione tra l’uomo e lo spazio.

Per ciò che riguarda la società umana (non l’individuo) il tempo di fatto non esiste. È un’astrazione dell’uomo, una conseguenza dell’esigenza di categorizzare ogni cosa, di definire e quantificare in maniera rigida e “matematica” ogni sfaccettatura della realtà con cui l’uomo si trova a relazionarsi quotidianamente in maniera più o meno consapevole.

Il tempo, che l’uomo concepisce come una risorsa finita (e quindi preziosa), è in realtà qualcosa di infinito. Lo spazio, invece, esiste, è evidente, è tangibile, ed è effettivamente finito e limitato, ma viene concepito dall’uomo come una risorsa infinita. Le conseguenze di questo approccio, costruito sulla base di premesse evidentemente sbagliate, sono davanti a noi quotidianamente: basti pensare alle diverse forme di inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’atmosfera, e all’uso intensivo del territorio e del terreno, spesso noncurante della Storia, della cultura delle regioni sfruttate, e soprattutto delle effettive esigenze e priorità di chi vi abita. Bisogna prendere in esame anche il proliferare delle numerose multinazionali che operano aldilà del Paese d’origine, spesso entrando in contrasto con gli interessi politici, economici e militari dello stesso. Questa è la profonda contraddizione entro cui l’uomo moderno vive ed entro la quale si trova a combattere quotidianamente, nella maggior parte dei casi in modo non del tutto consapevole delle ragioni che stanno alla base del disagio esistenziale provato.

Quindi l’idea della compressione spazio-temporale pone problemi rilevanti non soltanto a livello sociale e globale, riguardanti il fenomeno della globalizzazione, ma anche nel microcosmo della nostra vita quotidiana, non certo meno importante. Uno stravolgimento che include la sfera più piccola dell’esistenza riesce in breve a coinvolgere anche quella più ampia: il macrocosmo esistenziale che nasce e si sviluppa dalla relazione tra il mondo e tutti gli essere viventi che si muovono all’interno di esso, il rapporto tra spazio e movimento.

È difficile, naturalmente anche per chi scrive, proporre delle soluzioni assolutamente valide per affrontare la complessità della definizione di concetti talmente ampi e largamente interpretabili, ma un approccio vincente potrebbe essere quello adottato da coloro che vanno oltre la concezione tradizionale del tempo, inteso come una successione lineare di eventi disposti lungo un percorso orizzontale. Forse il modello preferibile è, al contrario, quello verticale: intendere il tempo come una grande libreria che svetta verso l’altro e i singoli eventi come i libri conservati sui suoi scaffali. In base a questa interpretazione i concetti di passato, presente e futuro non sono più validi, ogni evento ottiene la stessa accessibilità degli altri, a prescindere dal “quando” e dal “dove” essi siano avvenuti e dalla collocazione spazio-temporale del soggetto che si trova a relazionarsi con essi.

Questo modello potrebbe aiutare a superare l’attrito del tempo e la tensione che deriva dal timore di sprecare i preziosi secondi che, come già scritto, sembrano ormai essere diventati la risorsa più rara della nostra epoca.

Un ringraziamento particolare al Prof. Roberto Vecchioni, alla Prof.ssa Giulia De Spuches, alla Dott.ssa Chiara Giubilaro e al suo Corpi, spazi, movimenti (Milano, Unicopli, 2016) per i preziosi spunti di riflessione.

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