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Un poeta mi disse…

“I ricchi hanno Dio e la polizia, i poveri stelle e poeti…”
(da una cella in Palestina)

Spiegare con chiarezza scientifica il processo creativo che sta alla base della composizione di un testo poetico è pressoché impossibile. Ogni individuo è in possesso di un’interiorità in continua evoluzione, frutto dell’interdipendenza tra il carattere, le esperienze vissute e i gusti, tanto complessa da non potersi ridurre a seguire delle semplici “istruzioni per l’uso”. Ciò che rende la natura umana unica ed affascinante è proprio la sua dinamicità, la predisposizione al cambiamento, alla crescita, condizionata da un ampio spettro di emozioni, idee, fantasie che la rendono uno dei più misteriosi e complessi aspetti del reale.

Terenzio, autore celebre nell’ampio panorama letterario latino per aver composto commedie impegnate dal punto di vista culturale, sociale e politico, affermava: “Sono uomo, niente di ciò che è umano reputo estraneo a me”.  Infatti, partendo dal presupposto che ogni individuo è in possesso di una interiorità caratteristica, su cui si fonda il processo della creazione poetica, si può affermare che la poesia non deve essere considerata estranea a prescindere: tutti possono comprenderla e interessarsi ad essa, perché è qualcosa di profondamente umano e costituisce una forma di linguaggio di portata universale. La poesia deve poter essere letta e capita da chiunque, altrimenti perde la propria essenza, altrimenti non è poesia.

Tuttavia, se da un lato chiunque può leggere poesie, dall’altro pochi ne compongono. Questo trova spiegazione nel fatto che, anche se tutti potenzialmente possono comporre (in virtù del  rapporto interiorità – poesia), si ritrova a farlo soltanto chi è spinto da un desiderio profondo, spontaneo, inspiegabile o – adottando la sensibilità degli antichi – “soprannaturale”. È necessaria un’ulteriore precisazione: non tutti coloro che compongono poesia possono essere conseguenzialmente definiti poeti. La ragione è molto semplice: il vero poeta è quello che riesce ad andare oltre lo sfogo personale e il soddisfacimento delle proprie esigenze, è colui che, pronto ad impegnarsi da un punto di vista culturale e sociale, mette a disposizione degli altri il frutto del proprio lavoro, ritenendo che esso possa essere veicolo di valori e messaggi utili ad un pubblico di lettori.

In virtù di questo, nel tentativo di descrivere il processo di composizione poetica, sono solito distinguere due diverse macrofasi, adottando un approccio analogo a quello che sta alla base del modello “a libreria” che ho proposto su questo giornale attraverso l’articolo “Tempo degli uomini, spazio della società”. Riprendendo un linguaggio filosofico, adottato anche da Seneca, definisco la prima fase verticale e la seconda  orizzontale. Entrambe sono necessarie per la realizzazione del poeta e per il raggiungimento degli obiettivi da lui prefissati.  La fase verticale è probabilmente la più delicata: il poeta dialoga con se stesso, ponendosi dei quesiti, spesso suggeriti dall’esperienza e influenzati dalla sua concezione del mondo circostante, sia per quanto riguarda il microcosmo della sfera personale, più vicina a lui, sia per quanto riguarda la sua relazione con il macrocosmo della vita sociale. In questa fase l’autore riflette e dà sfogo all’esigenza di “razionalizzare” la propria riflessione attraverso l’uso accorto e misurato della parola scritta. Superata questa fase, il poeta deve porsi il problema conseguente, chiedendosi se le soluzioni (o le domande prive di soluzione), protagoniste del suo testo, possano avere valore per altri, oltre che per se stesso. A questo punto si entra nella seconda fase, quella orizzontale, basata sul dialogo con l’altro, ovvero con il lettore.

In un certo senso, la poesia, quella vera, si fa necessariamente (almeno) in due: il poeta, autore del testo, e il lettore, che interagisce con i versi, spesso giungendo ad interpretazioni lontane da quelle elaborate dall’autore stesso in fase di composizione.

Attraversate queste due fasi, il lavoro del poeta da un certo punto di vista è concluso, dall’altro è appena cominciato. Infatti, nel momento in cui il poeta ha ricevuto conferma del valore del suo lavoro, né ciò che ha composto, né ciò che comporrà, di fatto, gli appartiene più. È consapevole di avere delle responsabilità nei confronti del lettore che, interagendo con i testi, parteciperà alla creazione poetica, diventando così poeta egli stesso.

Con queste argomentazioni non intendo sostenere una presunta superiorità della poesia “alta”, riconosciuta di valenza culturale in ambito accademico o scolastico, rispetto alla poesia di chi compone semplicemente per dialogare con se stesso o per trovare attraverso la parola quel sollievo di cui ha bisogno. Si tratta semplicemente di due realtà apparentemente parallele che possono anche incontrarsi o persino coincidere. È il caso di Alda Merini, che, nonostante componesse i propri versi senza particolari obiettivi o ambizioni, è considerata una delle più grandi poetesse italiane del XX secolo. La sua poesia, pur essendo costruita nella mente dell’autrice solo nella fase verticale, sembra aver sviluppato spontaneamente una fase orizzontale. Quindi in realtà sembra impossibile stabilire una norma rigida che definisca la figura ed il ruolo del poeta, anche perché la storia della letteratura mondiale ci offre numerose eccezioni.

A conferma della varietà di modelli, può risultare utile mettere a confronto i due più celebri poeti cileni: Pablo Neruda e Vicente Huidobro. Quest’ultimo adotta una visione creazionistica della poesia che ruota attorno alla figura del poeta, inteso come un “piccolo dio”, dotato della straordinaria capacità di creare dal nulla qualcosa che prima non esisteva e che altrimenti non sarebbe mai esistito. Pablo Neruda, invece, fonda il proprio pensiero su principi profondamente diversi. Coerentemente con la sua lunga militanza nel Partito Comunista del Cile, adottò fin da subito una visione più umile, popolare e accessibile della poesia. Secondo Neruda, ogni uomo può diventare un poeta, perché ogni uomo vive, sente, gode, soffre, perché ogni uomo ha qualcosa da dire. La poesia definita da Neruda è a disposizione di tutti, i suoi versi, infatti, non hanno mai una fascia di pubblico definita, ma si rivolgono a tutti gli uomini, a prescindere dall’estrazione sociale e culturale. Forse proprio per questa ragione Pablo Neruda è stato (ed è attualmente) uno dei poeti più letti e apprezzati in tutto il mondo, persino in questo momento storico, in cui la poesia sembra essere messa da parte da molti editori e lettori, esclusa dalle librerie ed esiliata negli scaffali di polverosissime biblioteche, in attesa dell’attenzione elemosinata da studenti, studiosi o dagli altri soliti “addetti ai lavori”. 

Il condivisibile punto di vista di Neruda non presuppone l’affermazione di un’assoluta libertà dell’aspirante poeta: ci sono delle regole formali e strutturali che il buon poeta deve conoscere e osservare. In merito a questo aspetto, esistono numerosissime scuole, diverse tra loro, da quelle più rigide ed antiche, che prevedono, per esempio, l’utilizzo della metrica e del verso, a quelle più disinibite che sembrano godere di un’assoluta libertà, come la poesia futurista. In realtà anche il poeta futurista segue delle regole precise e per comporre deve necessariamente essere in possesso di una conoscenza delle norme consuete e di una solida cultura letteraria.

Dovendo individuare una regola generale per la composizione formale del testo, è saggio basarsi su un uso disinvolto e naturale del linguaggio e della lingua. È consueto che spesso si utilizzi un linguaggio diverso in base all’interlocutore. Il linguaggio che si adotta spontaneamente nel dialogare con un familiare o un amico è certamente diverso da quello utilizzato con un datore di lavoro, un insegnante o un estraneo. Ciò non toglie che i diversi linguaggi, che si adottano con disinvoltura a seconda del contesto, appartengano tutti in ugual modo al parlante, perché sono espressione di diverse sfumature del suo modo di essere e di porsi. In virtù di questo, si riscontra un errore molto comune fra gli aspiranti poeti, ovvero l’utilizzo nello scrivere di un linguaggio a loro totalmente estraneo ed inconsueto. Quando questo avviene, anche il lettore più inesperto se ne accorge, ed è il disastro, perché si interrompe il rapporto di fiducia tra autore e lettore, l’intesa necessaria per la trasmissione del messaggio. Un altro elemento fondamentale per quanto riguarda l’aspetto formale della composizione è la musicalità: anche la poesia libera deve rispondere a delle esigenze musicali, il poeta deve badare alla lunghezza del verso, alla punteggiatura, al suono delle parole, all’uso delle allitterazioni, delle assonanze  e delle altre figure retoriche, avendo sempre cura di farne un uso attento e misurato.

Per evitare di compiere questi errori, la terapia giusta consiste nel leggere molto e senza pregiudizi: poesia antica, moderna e contemporanea, ma anche prosa sono generi forieri di insegnamenti preziosi sia per quanto riguarda il linguaggio da utilizzare, sia per la complessa (eppure immediata) dimensione della musicalità. Ciò che ci ha preceduto è forse la più accessibile risorsa a nostra disposizione, e non bisogna dimenticare che anche forme artistiche  apparentemente lontane da quelle letterarie, come l’arte figurativa in generale, il cinema, il teatro e la musica, possono costituire preziosissimi punti di riferimento e reali fonti di ispirazione.

Sia cura del poeta esprimersi nella forma che gli è più vicina e consueta, alla ricerca del segreto della vita. Osservi lucidamente il mondo e le persone che vi ruotano intorno, perché si impara guardando gli altri, tanto quanto si apprende rovistando nel proprio guazzabuglio interiore. Maturi una dimensione e un linguaggio poetico che siano al tempo stesso riconoscibili e capaci di interpretare il mondo d’oggi, ovvero contemporanei.

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