Mahabharata: dall’illussione della fine, l’Inizio
di Gino Pantaleone
Il Mahabharata è un antico poema indiano quindici volte più ampio della Bibbia. Al centro dei miti, della religione, della storia e del pensiero indiano, il Mahabharata ancora oggi è il fondamento della vita culturale in India. Maha in sanscrito significa “grande” e Baharata “India” o “Umanità”. L’opera è composta da una serie di storie che, nate 3500 anni fa, ruotano alle vicende di una famiglia regnante corrosa dalle rivalità interne: l’epopea dei cinque fratelli Pandavas, che combattono per il potere contro i cugini feroci Kauravas. E’ un’epopea di eroi, divinità, animali favolosi, ma è anche un’epopea intima: i personaggi sono infatti vulnerabili, pieni di contraddizioni. Gli indiani ne parlano come se si trattasse di loro parenti, di persone con cui hanno rapporti confidenziali. La parte più elevata del poema è sicuramente il Bhagavadgita, un poemetto nel poema di settecento versi, dove Krshna Vasudeva il Dio Supremo, prendendo sembianze umane per proteggere i buoni e per promuovere la giustizia, davanti all’esitazione e allo smarrimenti di Arjuna, uno dei Pandavas (i buoni), fattosi volontariamente suo auriga, cerca di dissipare questi suoi dubbi e di mostrargli qual è, per un guerriero, la via da seguire.
La condizione umana, secondo tutte le scuole induistica, buddistica e giainica, è essenzialmente dolorosa, assillata dalle immagini tremende della separazione da ciò che si ama, della malattia, della vecchiezza e della morte. Il dolore si rinnova senza interruzione ed è seme di nuovo dolore. Ogni nostra azione, coscientemente eseguita, porta necessariamente con sé un frutto, buono o cattivo, piacevole o doloroso, secondo che l’azione sia stata moralmente buona o cattiva, ma comunque destinato ad esaurirsi. La legge del Karman, dell’azione e dei suoi frutti, è una legge naturale, automatica, che funziona senza l’intervento di alcuna divinità. Tutte le creature, uomini ed animali, sono sottoposti alla legge del Karman e, per virtù di essa, costretti a trasmigrare di esistenza in esistenza, proporzionatamente alle azioni commesse. «Né nell’immensità degli spazi atmosferici (dice il Buddha), né negli abissi dei mari, né se ti rintani nei crepacci delle montagne, in nessuna parte della terra troverai un luogo dove tu possa sfuggire al frutto delle tue azioni». Questa serie, questo scorrere (samsãra) di esistenze è universalmente sentito come una necessità dolorosa: di qui il desiderio di trovare una maniera di sfuggire ad esso, di liberarsi. Le varie scuole religiose e speculative dell’India sono appunto mosse da questo senso di insoddisfazione per le cose del mondo, dalla percezione della loro fatale transitorietà e quindi dolorosità e dalla conseguente ricerca di un sentiero che porti di la da esse. Questo sentimento che conduce allo spegnimento dei desideri da cui germina l’azione e quindi il trasmigrare, la «storia», è veduto nell’ascesi, chiamata con la famosa parola yoga che è, allo stesso tempo azione e disciplina concreta di meditazione che si distacca dal secolo e la conseguente unione con l’essere supremo.
Ecco uno dei tanti straordinari passi del Mahabharata: riguarda la morte. Bishma grande saggio e condottiero dei cattivi Kauravas, colpito da Arjuna, si trova sul letto di morte; Yudishtira, il più grande dei fratelli Pandavas gli rende onore andando ai suoi piedi addirittura chiedendogli consiglio:
Yudishtira: Bishma:
Yudishtira: Bishma: Yudishtira: Ragazzo: Yudishtira: Ragazzo: Yudishtira: Ragazzo:
Bishma, ho ucciso un bambino. Sono responsabile della sua morte. Cosa posso fare? Come posso comportarmi di fronte alla guerra?
Un ragazzo che non sa la morte, molto vecchio e insieme molto giovane, mi disse un giorno: “la morte non esiste”.
Cosa intendeva dire?
Chiedilo a lui, è qui.
Sei tu il ragazzo che non sa la morte?
Si.
Hai detto: “la morte non esiste?”
Infatti.
Ma se gli dei fanno sacrifici tuttora per non morire.
Ambedue le cose sono vere. I poeti rendono omaggio alla morte, la glorificano nelle loro canzoni, ma, credi a me, la morte è abbandono. E’ ignoranza. Mentre la vigilanza è immortalità. La morte è una tigre acquattata nei cespugli. Facciamo nascere i figli per la morte, ma la morte non può divorare chi si scrolla la vita di dosso, non ha più potere di fronte all’eternità. Il vento, la vita scorrono partendo dall’infinito. La luna beve il soffio della vita. Il sole beve la luna e l’infinito beve il sole. Il saggio si libra in mezzo ai mondi quando il suo corpo s’è distrutto e non rimane nessuna sua traccia. Allora la morte stessa è distrutta a sua volta. E l’uomo saggio contempla l’infinito.
La guerra dura diciotto giorni; in questo periodo si infrangono tutte le regole, non esiste più differenza tra il bene e il male e tutta l’Umanità intera viene distrutta, solo Yudishtira sale in Paradiso. Stranamente lassù, però, incontra i suoi nemici ma non i suoi fratelli che sente urlare da un luogo che poi scoprirà essere l’Inferno. Vedendo questa paradossale situazione rinuncia al Paradiso e dice al custode dell’Ultima Dimora di voler restare con la sua famiglia. Il custode dell’Ultima Dimora allora gli dice queste ultime parole:
Tu, non hai visto ne il Paradiso ne l’Inferno. Qua non esiste ne felicità, ne castigo, ne famiglia, ne nemici. Alzati e vivi in pace. Qua le parole finiscono come i pensieri. Era l’ultima tua illusione.