Pizzo e omertà: una ricetta mafiosa che viene da lontano
Omertà è solidarietà istintiva e brutale,
è certezza di poter contare sulla
“protezione” degli amici degli amici.
[Michele Pantaleone in “Omertà di Stato”]
L’omertà è la solidarietà istintiva e brutale fra tutti gli affiliati della onorata società, eufemismo che tanto ha giovato ai boss per auto accreditarsi virtù e valori positivi che la mafia non ha mai avuto, in virtù della quale ogni singolo mafioso non si sente mai isolato, nemmeno quando è detenuto e dovrà scontare una lunga pena. E’ la certezza di poter contare sull’aiuto e la protezione degli amici degli amici, così come vengono chiamati quei notabili parlamentari e quei politici al potere, quegli alti burocrati e non pochi professionisti “non affiliati” sempre disponibili a fare un favore da un amico ad un amico. Sino a qualche trentennio fa, la parola omertà non ricorreva in tutti i vocabolari anche se tra il mondo romanico antico c’era un reato similare prefigurato come improborum mutui silentii consensus. Il dizionario Palazzi negli anni ’90 ne diede la seguente definizione:
Voce del dialetto siciliano, legge della malavita che obbliga gli affiliati alla mafia alla solidarietà nell’offesa e nella difesa, ostacolando in tutti i modi la ricerca della verità per la punizione dei mafiosi.
Questa forma di solidarietà a favore di altri affiliati viene praticata in due modi: col silenzio o con discorsi spesso lunghi e sconclusionati, al limite della demenza, per lasciare il dubbio se quello che hanno detto è vero e spontaneo o irreale e inventato. L’omertà è il diniego della verità di fronte alla giustizia, cioè la maglia rotta della legge attraverso la quale il difensore dell’imputato riesce a seminare dubbi per negare o sviare le indagini. Purtroppo, spesso in Sicilia, l’omertà è stata confusa con il silenzio praticato dai siciliani come forma di autodifesa in una terra dove lo Stato è spesso stato assente, la Regione connivente o sono stati impotenti entrambi. Il silenzio è la naturale conseguenza della constatazione dell’inutilità di collaborare con la giustizia, dal momento in cui i denunziati riescono quasi sempre a farla franca e a ritornare a vivere nell’assoluta normalità.
Vito Cascio Ferro, per la maggioranza dei siciliani don Vito, fu campiere a Bisacquino del locale feudo di Santa Maria del Bosco dei baroni Inglese. Condannato nel 1884 per estorsione e incendio doloso, venne prosciolto per insufficienza di prove. Infiltratosi nel Fascio contadino di Bisacquino diventandone dirigente, si rifugiò in Tunisia per la repressione Crispi per poi ritornare in Sicilia e dedicarsi ad abigeati nella provincia di Palermo. Nel 1898 venne arrestato per il rapimento della baronessa Clorinda Peritelli di Valpetroso e venne condannato a soli tre anni. Si trasferì negli Stati Uniti dove prima si unì ad una cosca di falsari ed estortori originari di Corleone che lo coinvolsero con le attività della Mano Nera il cui traffico principale (tra l’altro Cascio Ferro ne fu l’ideatore) fu U pizzo (termine ricavato dal movimento dell’uccellino che si bagna il becco alla pozza d’acqua), cioè l’usanza di imporre il pagamento di una taglia su qualsiasi attività commerciale, industriale e persino professionale esercitata. Per chi osava rifiutare il pagamento, il prezzo da pagare era altissimo: sfregi, danneggiamenti, minacce di morte e nei casi estremi, a mo’ di esempio per gli altri, la morte stessa.
Perfino gli innamorati – racconta Michele Pantaleone in “Mafia e politica” – i quali, come allora si usava, manifestavano a lungo i loro sentimenti passeggiando sotto le finestre delle case dove abitava l’oggetto della loro ammirazione, dovettero assoggettarsi a pagare “a cannila”, e cioè a versare un contributo, figuratamente dovuto, quale rimborso del costo della candela che il mafioso aveva retto per proteggere la manovra amorosa!
Alla luce di questi fatti che ormai fanno parte della storia della mafia, il connubio tra pizzo e mafia è stato sino a qualche decennio fa inscindibile. Il pizzo ai commercianti è ancora oggi una piaga a tal punto che il Presidente del Senato lo scorso anno dichiarava che ancora a Palermo il 95% dei commercianti paga il pizzo. Storie importanti però, ci fanno riflettere sull’importanza di spezzare il muro dell’omertà al costo di pagarne grosse conseguenze, anche con la morte. Libero Grassi, ad esempio, un imprenditore siciliano, ucciso da Cosa Nostra, dopo essersi opposto a una richiesta di pizzo, ci ha insegnato che un uomo solo, per quanto coraggioso e integerrimo possa essere, non può sconfiggere questo cancro. La mafia del pizzo si sconfigge, abbattendo il muro di omertà riscoprendo l’assunto Ligabueiano e La Varderiano che Il silenzio è dolo, sempre, perché il silenzio aiuta la mafia, persegue gli obiettivi mafiosi e chi scopre i denuncianti delle illegalità. In quel di Corleone, il paese massacrato per cattiva reputazione e famoso in tutto il mondo per aver dato i natali a boss che hanno fatto la storia della mafia degli ultimi 70 anni, ho intravisto uno squarcio di speranza: imprenditori che denunciano e mafiosi che vanno in galera. La questione è sempre una richiesta di pizzo. Il parassita è appollaiato ovunque circoli danaro e quando questo non c’è, succhia sangue a chi tenta di lavorare onestamente.
Grassi ci insegna che uniti, si centuplicano le forze del coraggio; e allora prendiamoci per mano e andiamo a riprenderci la nostra libertà.