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Il compromesso delle garanzie

Immaginate che vi chiedano di intraprendere un viaggio percorrendo una strada del tutto sconosciuta, che potrebbe rivelarsi impervia lungo il cammino, e che non ha vie d’uscita né scappatoie, una volta imboccata potrà portarvi ad un unica destinazione, a prescindere dal fatto che a questa vogliate giungere o meno. Immaginate inoltre di sentirvi dire che questa strada è molto più breve e sicuramente più moderna di quella che avete sempre seguito e che, anche se la vecchia strada aveva molte diramazioni e molte possibili destinazioni, la meta che troverete alla fine della nuova strada vi piacerà di più senza dubbio, parola di Governo. Quale delle due vie scegliereste? Cosa sareste disposti a sacrificare ? Una maggiore possibilità di scelta in cambio di celerità, o l’esatto contrario? Vi importerebbe più arrivare prima percorrendo una sola direzione che vi porterà esclusivamente in un posto, o impiegare più tempo avendo più rotte da intraprendere e luoghi da poter raggiungere? A livello metaforico questo rappresenta il bivio di fronte al quale gli italiani si sono ritrovati nel momento in cui sono stati chiamati ad esprimersi sulla parziale modifica della Costituzione. Dover scegliere tra continuare con un sistema che tutela maggiormente le minoranze e una concreta opposizione al partito di maggioranza ( che chiaramente non rappresenta la totalità dei cittadini ) o conferire maggiori poteri al presidente del consiglio al punto tale da permettergli di operare come meglio crede in maniera quasi indisturbata. Si è già detto molto in merito ai mutamenti giuridici che un’eventuale vittoria del “sì” avrebbe potuto comportare, e quello appena ricordato è solo uno dei tanti temi che questa riforma andava ad interessare. Ma ciò che più mi preme sottolineare è il modo in cui questa riforma pensava e sperava di realizzare i suoi obbiettivi o, per lo meno, come avrebbe modificato l’iter legislativo incidendo su composizione e poteri delle due camere: sacrificando le garanzie.

La nostra carta costituzionale si incentra su alcuni principi molto importanti, tra i quali certamente spiccano l’uguaglianza e la parità di tutti i cittadini. Affinché questo possa essere assicurato però sono necessarie apposite tutele, consistenti nella predisposizione di un apparato che consenta a tutti in primo luogo di esprimersi e di essere rappresentati; tutto ciò ha ovviamente un prezzo. Al di là delle dinamiche prettamente costituzionali, in qualsiasi ambito ciò che assicura maggiori diritti, maggiori libertà e maggior sicurezza, finisce col ridurre altri aspetti che con tali presupposti contrastano, a cominciare dalla tanto agognata celerità. Questo è ciò che potremmo chiamare il compromesso delle garanzie. Sta a noi chiaramente decidere da che lato far pendere la bilancia, consci del fatto che qualsiasi sia la scelta, il sistema perfetto ovviamente non esiste. La lungaggine dei processi in Italia, ad esempio, è dovuta in gran parte a un sistema che tenta di assicurare una sentenza quanto più precisa e rispondente al vero possibile, accompagnato da un contraddittorio in cui le parti abbiano sempre pari diritti e poteri; il legislatore ha scelto di far pendere la bilancia verso il lato delle garanzie piuttosto che da quello della rapidità. Il risultato del referendum ha dimostrato una propensione dei cittadini verso la medesima direzione, ma non è questo il punto su cui voglio concentrarmi; il fatto è che, a mio avviso, un quesito posto in questi termini non doveva neppure essere proposto, poiché non è certamente questo il metodo giusto per scardinare l immobilismo italiano di cui tutti ci lamentiamo.

Il bicameralismo perfetto che la riforma avrebbe voluto eliminare modificando la composizione e i poteri del senato, non comporta un raddoppiamento delle tempistiche di produzione legislativa come molti sostenitori del “sì” hanno sempre affermato; le due camere, infatti, pur avendo i medesimi poteri, hanno funzioni completamente diverse, il cui scopo principale è quello di creare nel sistema parlamentare quell’apparato di garanzie necessario affinché un legge non venga decisa sistematicamente dalle stesse forze politiche che rappresentano solo una parte della totalità dei cittadini dato che, una volta promulgata, quella stessa legge si applicherà nei confronti di tutti i soggetti che compongono lo Stato. Le cause della staticità che contraddistingue il nostro paese non hanno nulla a che fare con gli aspetti che la riforma avrebbe voluto modi care; riguardano piuttosto la sovrapproduzione di emendamenti spesso non inerenti al testo di legge che comportano un opposizione cancerogena, o ancora la mancanza di un accordo tra i principali partiti che sfoggia spesso in una lite infantile al centro della quale vi sono soltanto interessi politici e non sociali, e potremmo continuare per diverse pagine. Detto ciò, considerando che l’analisi di tutti gli aspetti di cui vorrei parlare è tendente a infinito, mi avvio alle conclusioni diplomatiche che contraddistinguono qualsiasi buona riflessione da paraculo a cui non piace farsi carico di troppe responsabilità, come me. A tutti gli yes man dico che mi dispiace ( non avrei mai voluto le dimissioni di Renzi ) e dico anche che “cambiamento” non è, per il suo solo significato, un concetto necessariamente utile e vantaggioso, ma va ben ispezionato nei suoi aspetti più profondi prima di essere accolto a braccia aperte, visto che sai quel che lasci ma non quel che trovi. A quelli del “no” invece dico di non stappare troppo champagne e di conservalo per capodanno, dato che con questa vittoria non si sono risolti i problemi dell’Italia ma semplicemente si è evitato che se ne creassero di nuovi e di ricordare che politica e costituzione sono, per fortuna, due cose abbastanza distinte, ed è dunque ridicolo votare focalizzandosi sulla prima, quando il quesito che vi viene posto verte unicamente sulla seconda.

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