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Cabiria, Superuomo e Superman

“Non la forza, ma la costanza di un alto sentimento fa gli uomini superiori”.
Friedrich Nietzsche

Nel corso degli anni ’90 dell’Ottocento, Gabriele D’Annunzio, poco più che ventenne, costruisce intorno al proprio volto la “maschera” dell’esteta. un individuo reso superiore a tutti gli altri dalla straordinaria sensibilità che lo contraddistingue. L’esteta rifiuta con orrore la mediocrità borghese che caratterizza la società circostante e, per questa ragione, decide di rifugiarsi in un mondo di pura arte, di partire per una sorta di esilio volontario che, nel caso di D’Annunzio, viene trascorso nella sua lussuosa villa della Capponcina a Settignano sui colli di Fiesole.

Alla fine del decennio, D’Annunzio vive una vera e propria crisi esistenziale, che si riflette anche sulla sua produzione letteraria: la sua condizione di esteta, isolato dal mondo, gli provoca un profondo disagio. Urgono dunque nuove soluzioni per affrontare adeguatamente il proprio tempo. Il Poeta le trova prontamente nel mito del superuomo di Nietzsche, che rielabora costruendolo a sua immagine e somiglianza.
Il superuomo dannunziano è un esteta “evoluto”: un mito non più soltanto di bellezza, ma di energia eroica, attivistica, un individuo dalla sensibilità superiore che, consapevole della propria supremazia intellettuale, pretende di essere ascoltato e compreso dalla mediocre società borghese, indicando ai suoi contemporanei la via della verità e dell’eccellenza.

 
Per questa ragione, D’Annunzio diventa il Poeta Vate, il profeta destinato a guidare la Nazione verso un futuro di grandezza e prosperità.
Le ambizioni del Poeta sono chiaramente utopistiche e figlie di una cultura europea che va spezzandosi progressivamente nel variegato, antitetico e velenoso mosaico delle Nazioni, il cui delicato equilibrio si romperà con lo scoppio della Grande Guerra.
Ciò che più conta ai fini di questa riflessione, tuttavia, è che D’Annunzio si rende conto di aver indossato, fino al momento della crisi, una maschera; è consapevole di aver trascorso molti anni in una condizione che non gli apparteneva.
Il tema della maschera nella cultura popolare contemporanea appartiene da decenni al mondo del fumetto e del cinema, attraverso alcuni emblematici personaggi, ovvero i supereroi.

 
La maschera infatti è ciò che contraddistingue il supereroe: un individuo in possesso di poteri straordinari che mette a disposizione del prossimo per difenderlo dal male e da minacce che l’uomo comune non potrebbe affrontare e vincere con le sole proprie forze.
Se il supereroe difende il mondo, la maschera a sua volta difende il supereroe dal mondo, infatti permette all’eroe di preservare la propria “identità segreta” e dunque tutta la sua dimensione personale. Egli, infatti, non cerca fama o attenzione mediatica, ma opera nell’anonimato, sotto un simbolo che spesso coincide con la maschera stessa.
Dunque il supereroe, come il superuomo, ha una “vocazione civile”: mette le proprie doti straordinarie a servizio della società, ma il superuomo dannunziano, coerente con il modello della “vita inimitabile”, non potrebbe mai accettare l’anonimato, perché la creazione di un mito attorno alla figura del Vate è ritenuta condizione imprescindibile per il raggiungimento dei suoi ambiziosi fini.

 
Uno dei personaggi che probabilmente gettò le basi per la definizioni di quello che sarà l’archetipo del supereroe è certamente Maciste, ideato proprio da Gabriele D’Annunzio nei primi anni del Novecento, ispirandosi agli eroi della mitologia greca.
Maciste, che compare per la prima volta nel film Cabiria (1914), è un giovane in possesso di una forza sovraumana e di un animo generoso e coraggioso che utilizza per difendere i più deboli, in particolare giovani fanciulle indifese, da soprusi di malviventi.

 
I canoni fondamentali che caratterizzano la figura del supereroe, nell’immaginario collettivo, tuttavia, sono certamente stati introdotti dall’invenzione del celeberrimo personaggio di Superman, creato da Jerry Siegel e Joe Shuster nel 1933 e pubblicato dalla DC Comics nel 1938.
Superman è un alieno, l’ultimo della sua razza, che viene spedito sulla Terra ancora bambino dal padre che vuole salvarlo dalla distruzione del loro pianeta, Krypton. Sulla Terra viene adottato da una famiglia di generosi contadini che lo cresce come un figlio, consapevole che il ragazzo, il cui nome “terrestre” è Clark Kent, è in possesso di poteri straordinari, tra i quali: forza sovraumana, capacità di volare, invulnerabilità e velocità.
Una volta cresciuto, Clark decide di mettere queste doti al servizio del mondo, avendo cura di difendere la propria identità segreta. Ma vi è una differenza fondamentale tra Superman e gli altri supereroi: la vera identità di Superman è Superman stesso, mentre Clark Kent, il mansueto ed introverso giornalista, è la “maschera”.

 
Quando Clark Kent entra nell’iconica cabina telefonica per spogliarsi dei suoi abiti “borghesi” ed indossare la tuta blu e il mantello rosso, rinuncia alla propria maschera, per acquisire nuovamente la propria identità: per tornare ad essere Superman.
Kent rappresenta la profonda esigenza di normalità che caratterizza Superman, la volontà di essere un uomo comune, di poter vivere, anche se sotto un travestimento, senza il timore di essere giudicato diverso e di essere escluso dalla società.

 
Anche il superuomo D’Annunzio ha indossato una maschera, quella dell’esteta in esilio, ma per poco. Infatti è profonda la differenza umana e culturale tra queste due figure: D’Annunzio vive con estremo orgoglio la propria superiorità intellettuale, non teme di essere escluso, ma pretende l’inclusione da protagonista all’interno di una società che vuole influenzare e rivoluzionare totalmente, allontanandola da modelli comportamentali borghesi a lui avversi.
Mentre la “maschera” di Superman rappresenta l’uomo comune, che il supereroe vuole difendere, il superuomo dannunziano pretende di rieducare l’uomo comune, stravolgendone il sistema di valori.
L’uno rifiuta la maschera, mostrando con fierezza il proprio volto, l’altro la indossa e la difende quotidianamente, quasi vergognandosi della propria straordinarietà.

 
Forse ciò che rende davvero preziosa l’intuizione di Gabriele D’Annunzio è la consapevolezza che vi è alla base: la convinzione che rinunciare alla propria straordinarietà (o ordinarietà) e alla propria coerenza umana ed intellettuale comporta la perdita della propria identità e dunque l’impossibilità di relazionarsi armoniosamente con il mondo circostante e, probabilmente, con la vita stessa.

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