“Lobby” è un termine ormai entrato a far parte del linguaggio comune, anche se, a dir la verità, pochi sanno veramente di cosa stanno parlando. Il termine – che deriva dal latino “laubia” (tribuna) – fa la sua prima apparizione nella Gran Bretagna del XVII secolo. Veniva solitamente usato per indicare uno spazio aperto all’interno delle Camere in cui parlare e discutere liberamente con gli esponenti del Governo inglese. Da qui l’accezione – spesso dispregiativa – di “portatori di interesse” o “gruppi di pressione”. Di fatti, con il termine lobbismo si intende la pratica con cui i “lobbisti” investono denaro per comprarsi i favori di uomini politici e piegarli alle loro esigenze. In altre parole, quei gruppi che influenzano – direttamente o indirettamente – l’azione della politica interna.
Nell’Unione Europea solo 6 su 28 degli stati membri possiedono un registro che regolamenti il lavoro delle lobby. Si tratta di Austria, Irlanda, Lituania, Polonia, Regno Unito e Slovenia. In Italia esse agiscono per lo più in segreto a causa soprattutto di un’assente regolamentazione. A partire dall’anno appena trascorso, però, si sta tentando di risolvere la questione.
Dal registro di trasparenza delle lobby emanato dall’UE, emergono i primi significativi numeri. 9772 le organizzazioni accreditate sul territorio comunitario, di cui 1964 in Belgio, 1235 in Germania, 1071 in Regno Unito, 982 in Francia, e 712 in Italia. Circa il 91% dunque ha sede nei Paesi dell’Unione e il restante 9% in altre nazioni. Gli Stati Uniti, con 335 lobby accreditate si classificano all’ottavo posto a livello generale.
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