“Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno”.
Era il 27 gennaio del 1945 quando le avanguardie delle truppe sovietiche raggiunsero e liberarono dai tedeschi il campo di concentramento di Auschwitz.
Fu in quel momento, oltre la scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi), che si aprirono le porte dell’inferno e il mondo intero conobbe per la prima volta e concretamente la ferocia e l’orrore di quel genocidio spietato.
Dal 1940 Auschwitz fu un enorme campo di morte, la “Soluzione finale” escogitata da Hitler e dai suoi gerarchi per liberarsi definitivamente della “questione ebraica“. Gli ebrei, atrocemente strappati dalla loro quotidianità, giungevano in treni merci e una volta portati nella Judenrampe (la rampa dei giudei) subivano una selezione, dopo la quale venivano portati quasi tutti nelle “docce” (le camere a gas). Alcuni sopravvivevano, privati della propria dignità e di tutto, lavorando duramente.
Ad Auschwitz trovarono la morte quattro milioni di ebrei: erano uomini, donne, bambini. Furono sterminati anche zingari, testimoni di Geova, omosessuali, oppositori.
“CHI UCCIDE UNA VITA, UCCIDE UN MONDO INTERO”
Oggi ricordiamo un genocidio che non potrà mai ricevere alcuna giustificazione, che non deve essere dimenticato, soprattutto in un’epoca come questa, dove l’odio razziale e la violenza possono tradursi in realtà concrete.
Allora, ricordare è un dovere. Ricordare quanto di disumano è stato scatenato contro milioni di persone. Perché, purtroppo, non stiamo parlando di numeri: ad ogni persona corrispondono un nome, una storia, una vita. Un vecchio adagio ebreo dice che “chi uccide una vita, uccide un mondo intero“. Lo sterminio del popolo ebreo è stato un progetto, in cui nulla è stato lasciato al caso: tutto è stato attentamente studiato a tavolino. Ricordiamo affinché non accada mai più, affinché il ricordo possa diventare un impegno contro l’indifferenza e contro l’odio.
Per concludere, vi proponiamo alcune parole tratte da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, testimone diretto dell’olocausto.
Così si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto di immagini più indistinte: la sofferenza di giorno, composta di fame, percosse , freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa.
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