C’è una guerra per la leadership dell’organizzazione mafiosa a Palermo e provincia. I corleonesi non hanno più l’autorevolezza di un tempo, anche perché molti sono in carcere. Tanti sono i gruppi che vorrebbero prendere il comando alla vecchia maniera. Ma a non fare andare all’aria tutto ci pensano i vecchi mafiosi che gestiscono equilibri e rinnovo nei mandamenti e nelle famiglie.
Tra i soggetti che vi prenderebbero parte sembra acutizzarsi l’insofferenza verso la leadership corleonese (ristretta in carcere) che, nel passato, è stata garanzia, per la struttura, di massima coesione verticistica e la cui autorità non era mai stata finora messa apertamente in discussione. Le ultime indagini di Carabinieri e Polizia di Stato hanno fatto registrare un incremento delle tensioni connesse alla pressante esigenza di risolvere le questioni del rinnovamento degli organi decisionali e di comando.
La fotografia di cosa nostra palermitana fornita dai numerosi riscontri d’indagine raccolti nell’ultimo periodo e dalle più recenti collaborazioni, tratteggia un’organizzazione multipolare, con più centri di comando ed uno scenario eterogeneo, in cui si rilevano sconfinamenti, indebite ingerenze, interconnessioni operative, candidature autoreferenziali e, sempre più, la tendenza di famiglie e mandamenti a riservarsi maggiori spazi di autonomia. Ciò ha comportato per l’organizzazione criminale una ulteriore rimodulazione dei mandamenti (complessivamente 15, di cui 8 in città e 7 in provincia) e delle famiglie (80, di cui 32 in città e 48 in provincia).
In questo contesto, appaiono significative una serie di vicende che dimostrano la costante ricerca, da parte della consorteria, di un consenso a cui giustificare il proprio operato. Allo stesso tempo, comprovano la sussistenza di segmenti sociali ancora troppo disponibili al compromesso e, come tali, humus della sub-cultura pervasiva e inquinante del sistema mafioso.
Il potere di cosa nostra continua a manifestarsi attraverso forme di coercizione, spiccata capacità imprenditoriale e abilità nel penetrare ambienti politico-amministrativi.
In particolare, per quanto riguarda la propensione dell’organizzazione ad infiltrare settori strategici dell’economia siciliana, vale la pena di richiamare la confisca del patrimonio di un imprenditore edile, stimato in 120 milioni di euro, eseguita nel mese di febbraio del 2016 dal Centro Operativo D.I.A. di Palermo, quale esito di un sequestro scaturito da una proposta del Direttore della D.I.A..
Questa espressione manageriale mafiosa tende ad alimentarsi e a diffondersi sul territorio potendo contare su imprenditori e professionisti compiacenti, gli uni interessati ad abbattere i costi di produzione e a recuperare margini di competitività, anche fuori Regione, gli altri ad acquisire maggiori provvigioni e a lucrare, ad esempio, sulle compagnie di assicurazione. È quanto emerso nel corso di un’indagine congiunta tra il Centro Operativo di Palermo e quello di Napoli, che ha portato all’esecuzione di una misura cautelare32 nei confronti, tra gli altri, di un collaboratore di giustizia, organico alla famiglia palermitana della GUADAGNA.
Quest’ultimo, infatti, si poneva al centro di una composita associazione criminale, formata da palermitani e napoletani, dedita all’organizzazione di finti sinistri stradali, dove alle vittime consenzienti venivano provocate lesioni gravi, per il conseguimento di cospicui risarcimenti richiesti alle compagnie assicurative.
Nessuno sorpresa quindi per le procedure avviate per verificare eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata negli enti locali, come:
Per quanto riguarda il racket delle estorsioni, sia nella provincia che nel capoluogo – dov’è caratterizzato da sistematicità e violenza, specie nei quartieri ad alta densità abitativa, in cui l’interazione delle famiglie con la popolazione è più diretta – continua a rappresentare una risorsa fondamentale per il mantenimento stesso dell’organizzazione.
Nell’operazione “Maqueda”, conclusa nel mese di maggio, sono state ricostruite le condotte illecite di un gruppo criminale, capeggiato da tre fratelli, che esercitavano il controllo dello storico quartiere Ballarò nei confronti di commercianti extracomunitari (soprattutto appartenenti alla comunità del Bangladesh), “vittime”, da diverso tempo, “non solo di estorsioni, rapine ed atti di ritorsione di ogni genere, ma anche di … angherie e soprusi”. Dopo la scarcerazione di uno dei tre fratelli, il gruppo, è stato in grado di “consolidare una sorta di animalesco e primordiale predominio territoriale volto a soggiogare la comunità di extracomunitari”… “quasi in una neo schiavitù”. Le indagini hanno preso le mosse dal tentato omicidio perpetrato, il 2 aprile 2016, nei confronti di un cittadino gambiano, per il quale era già stato tratto in arresto l’autore materiale.
In stretta connessione con il fenomeno estorsivo continua a porsi il settore dei prestiti ad usura, anch’esso importante mezzo di finanziamento illecito ed indice del volume dell’economia sommersa gestita dalla criminalità organizzata. Tra tutti, il mercato degli stupefacenti, il cui epicentro regionale può essere stabilito nella provincia di Palermo, dove viene gestito direttamente da sodali o personaggi contigui all’organizzazione mafiosa, continua a rappresentare un canale privilegiato di reinvestimento e moltiplicatore di capitali illecitamente accumulati.
In tale settore cosa nostra opera, insieme a ‘ndrangheta e camorra, in un sistema criminale integrato, in cui ciascuna organizzazione mantiene saldo e inalterato lo stretto legame con il proprio territorio.
Sul piano generale le famiglie tendono a tollerare l’operatività di gruppi organizzati stranieri soltanto in settori dell’illecito ritenuti secondari e/o con ruoli marginali di cooperazione o di subordinazione. Poi c’è anche il ricorso di cosa nostra ad elementi di altra etnia che però è limitato ad una collaborazione circoscritta a particolari attività criminali e sempre con compiti di basso profilo.
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