Di Matteo alla Direzione nazionale antimafia? Forse sì, anzi no, non ancora
Una retromarcia? Forse si, ce lo racconta Lorenzo Baldo su Antimafiaduemila.
Partiamo dalla fine. Il Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha chiesto al Ministero della Giustizia il “post possesso” del nuovo incarico del pm Nino Di Matteo alla Dna. Dalle prime notizie sarebbe quindi posticipato di sei mesi l’insediamento alla Procura nazionale antimafia per consentire a Di Matteo di portare avanti il processo sulla Trattativa Stato-mafia e le relative indagini tutt’ora aperte di cui si sta occupando il magistrato palermitano. Solamente un giorno fa le agenzie avevano rilanciato uno stralcio del testo della mail che lo stesso Lo Voi aveva inviato a tutti i magistrati della Procura. L’oggetto in questione? “Solidarietà”. Di primo acchito qualcuno avrà pensato che il Capo della Procura di Palermo si riferisse al suo collega Di Matteo condannato a morte da Cosa Nostra. Ma quella “solidarietà” era invece destinata a tutti quei magistrati che, secondo Lo Voi, sarebbero stati offesi dalle dichiarazioni di Di Matteo. E quali sarebbero state queste parole così offensive? Rileggiamole: “Non ero più in condizioni di lavorare a tempo pieno su inchieste delicatissime che a mio parere richiedono un tipo di impegno totalizzante – aveva affermato il pm -. Negli ultimi anni sono stato costretto a conciliare la delicatezza e la gravosità dell’impegno che conoscete, come il processo trattativa, con la necessità di occuparmi di centinaia di procedimenti di piccoli furti, truffe, reati comuni, guida in stato d’ebbrezza; una situazione che stava diventando paradossale con l’accentuarsi dei rischi nei confronti miei e della mia famiglia. Ho ritenuto, dunque, che la scelta di cambiare ufficio ed andare alla Dna, sarebbe stata più utile per dare un contributo soprattutto sulle vicende su cui ho sempre lavorato a Caltanissetta e a Palermo”. Però, quale attacco indecoroso nei confronti dei suoi colleghi! Ma qui di indecoroso (per usare un eufemismo) probabilmente ci sono solo le parole del Capo di una Procura che appaiono come una sorta di chiamata alle armi per isolare chi ha osato raccontare quello che a tutti gli effetti appare come un paradosso. Rileggiamo ugualmente lo stralcio della mail del Procuratore Lo Voi: “Qualche recente esternazione potrebbe avere ingenerato l’opinione che chi si occupa di reati apparentemente minori (furti, rapine, truffe) o di indagini che non assurgono agli onori delle cronache svolga un lavoro poco qualificante se non di serie B… Questo non è il mio pensiero”.
Il riferimento a Di Matteo è del tutto evidente. “E’ indispensabile l’apporto di tutti – insiste Lo Voi – ciascuno con la sua determinazione nel perseguire tutti gli illeciti non solo quelli che magari danno notorietà (che non considero un valore ed è peraltro effimera), ma anche quelli che possono rispondere alle esigenze di giustizia che il cittadino ci sottopone”. Fine della “solidarietà”. Le domande che restano appese a un filo sono sempre le stesse. Di Matteo rimane altri 6 mesi a Palermo per proseguire il processo Trattativa e le relative indagini: ma continuerà a doversi occupare di “piccoli furti, truffe, reati comuni, guida in stato d’ebbrezza”? E in questo caso che senso avrebbe trattenerlo a Palermo – con tutti i rischi altissimi per la sua incolumità che la scelta comporta – per poi continuare a sottrargli tempo prezioso in quelle indagini delicatissime che sta conducendo? E’ una strategia subdola per sfiancarlo ulteriormente lasciandogli il processo Trattativa ma indebolendolo agli occhi del suo Ufficio in quanto ritenuto amante di una certa “notorietà effimera”? Siamo di fronte ad una reazione scomposta di un Capo per “lesa maestà”? O bisogna pensare ad una regia “esterna” che mira a debilitare il pm del processo Trattativa per prepararlo al ruolo di “capro espiatorio”? Come sempre “a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca”. In un Paese come il nostro, saturo di corsi e ricorsi storici, tornano in mente le parole dell’ex Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, vergate di suo pugno nel 1982, quando descriveva la reazione dell’ex Procuratore di Palermo Giovanni Pizzillo che voleva a tutti i costi “caricare di processi semplici” Giovanni Falcone in maniera che “cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla”. Paragone azzardato? Può essere. Lo scorso 5 febbraio al dibattito sul tema “Giovanni Falcone e il Consiglio superiore della Magistratura” l’ex Gip di Palermo Piergiorgio Morosini (attualmente componente del Csm) ha ricordato quanto avvenuto il 19 gennaio 1988 quando il Csm nominò il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo nella persona di Antonino Meli, bocciando Giovanni Falcone. Morosini ha posto pubblicamente una serie di domande. “Dobbiamo capire perché Giovanni Falcone è stato lasciato solo. Perché la magistratura non gli è stata vicina? La magistratura non gli è stata vicina, è un dato di fatto. Non gli è stata vicina sulla vicenda del Consigliere istruttore, non gli è stata vicina nella vicenda quando è stato candidato al Csm, né quando è stato chiamato per la sua attività al Ministero, né quando ha chiesto di essere nominato Procuratore nazionale antimafia, né quando è stato Procuratore aggiunto”. “E’ lecito chiedersi – sottolineava Morosini – se per quella nomina certi ambienti esterni del Csm temessero esiti di quella decisione non solo per le capacità professionali ma per le potenzialità di certi metodi di lavoro, sperimentati per esempio nel primo maxi processo a Cosa nostra, sull’esposizione della politica in relazione al potere criminale… Quindi un agire in prevenzione magari condizionando alcuni che non avevano la consapevolezza di quale fosse la reale posta in gioco in quella nomina”. Le riflessioni dell’ex Gip di Palermo appaiono quanto mai attuali e impongono una seria presa di coscienza per evitare il ripetersi dello stesso epilogo.
In quello stesso convegno era intervenuto anche Nino Di Matteo. A dir poco profetiche erano state le sue parole. “Oggi avverto il pericolo di diventare un oscuro funzionario talmente acriticamente ligio alle direttive dei capi degli uffici da farsi espropriare dal ruolo di titolare dell’indagine, un pericolo che non riguarda solo i pubblici ministeri. Il rischio di essere sommerso dai processetti, come avvenuto con Giovanni Falcone, oggi è immanente per tutti i magistrati italiani”. “Io ho fiducia in tutti i colleghi – concludeva Di Matteo – e in particolare in quelli più giovani per la loro capacità di informarsi e lavorare senza pregiudizi, coltivando il valore di autonomia e indipendenza, che hanno il coraggio di pagare sulla propria pelle quella scelta e la loro capacità di indignazione sulle storture del sistema. Ho anche la speranza che conserviate la passione civile di verità e giustizia e resistiate sempre all’assuefazione del sistema e del conformismo e del carrierismo. Una battaglia di tutti noi, l’unica battaglia per ricordare i nostri morti e indossare con onore la nostra toga”.
Sono passate solo 24 ore dalla Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera, gli oltre 900 nomi delle vittime innocenti delle mafie sono stati ricordati affinché siano lo stimolo per un impegno attivo. Ma anche per ricordarci che la responsabilità più impellente per una società che si definisce civile è quella di evitare che in quell’elenco si ritrovino altre vittime: uccise fisicamente o moralmente.