Tanto – troppo – si è detto sulla famigerata pubblicità del Buondì Motta, che ha avuto l’ardire di sacrificare sia la mamma che il papà di una ragazzina innocente (peraltro definita una “deficiente odiosa” nel migliore dei casi, alla faccia del garbo e dei buoni sentimenti) sull’altare dell’ironia. Ed è, molto evidentemente, l’altare di una chiesa che in molti hanno smesso di frequentare. Peccato.
Peccato perché potremmo farci tutti una sonora risata se, diradatosi il polverone, saltasse fuori che il caso mediatico è stato gonfiato ad arte dagli stessi autori dello spot – e non è per fare i complottisti, c’è un po’ po’ di letteratura su questo genere di marketing “monello”, che dai principi dell’agenda setting ha fatto derivare pratiche assai più becere di manipolazione dei media. Tutto, insomma, purché se ne parli (e anche questa, ça va sans dire, non è farina del mio sacco).
Peccato anche perché non c’è, credo, nessuna differenza tra la violenza delle immagini che quest’orda di perbenisti si affanna a denunciare, e quella delle espressioni usate per esprimere il… vabbé, chiamiamolo “dissenso”. Anzi no, la differenza c’è ed è sostanziale: la prima è solo presunta, e se ci togliessimo i paraocchi saremmo in grado di vedere che è tutto talmente, palesemente, indiscutibilmente surreale e iperbolico che – toh, guarda, si stava a scherzà. È la seconda, la violenza dell’accanimento, dell’animosità e degli insulti senza filtri quella reale e tangibile, concreta anche se fatta di pixel, più minacciosa perché sostenuta e fomentata da una certa dilagante, condivisa ottusità.
Io penso, molto francamente, che quelli di Saatchi & Saatchi abbiano fatto un ottimo lavoro. E “fare il loro gioco” scrivendo l’ennesimo articolo sul tema non mi turba; non è questo il punto. Così come il punto non è assolutamente snobbare o denigrare quelli che la battuta, qualsiasi sia la ragione, non l’hanno capita: loro non hanno riso, questo resta un fatto. Amen.
Mi disturba, invece, e pure assai, il fatto che i social media stiano diventando i canali di un’indignazione aprioristica e indiscriminata; che sempre più spesso tendiamo a confondere il diritto – sacrosanto – di avere un’opinione sulle cose con il supposto dovere morale (ma de che?) di intavolare un dibattito in mondovisione su qualsiasi banalità, pretendendo che assuma la dignità di un affare di stato.
Nello specifico, per quelli come me che hanno studiato (o si interessano di) comunicazione, analizzare come una campagna di advertising riesca a trasformarsi in una notizia è interessante. Occhio però, in generale, alle “cause” a cui più o meno consapevolmente dedichiamo la nostra attenzione, e ai toni che scegliamo di usare. Grazie ai social, possiamo tutti contribuire a decidere l’ordine del giorno; il rischio più grande, tuttavia, è quello di avere un’agenda settata – vogliano perdonarmi i raffinati e i puritani – solo sulle minchiate.
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