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In fame we trust

Di come un sabato qualunque diventa, per miracolo, un momento very important

Oggi la celebrità è una specie di divinità on demand: basta invocarla perché si materializzi e il mondo sia improvvisamente diverso da quello che è di solito.

Lo so perché l’ho vista di recente; l’hanno richiamata sabato sera a Palermo, in via Alloro. Per l’occasione ha assunto le sembianze di un famoso attore romano. Che non era da solo, in effetti, c’erano altri attori con lui, e c’era una troupe – che non è celebrità in sé, ma funziona da moltiplicatore perché ci ha a che fare.

C’è voluto poco perché curiosi e accoliti nei dintorni accorressero per assistere a quella che, come tutte le esperienze mistiche, è un fenomeno autoevidente e non ha bisogno di argomentazioni per essere goduta.
Io ero con un gruppo di amici, è bastato un “sto andando là, mi hanno detto che c’è festino con vippaio” per farci smuovere.

Il luogo dell’apparizione era un bar squallido, di norma molto poco frequentato: fuori dal locale ci ha accolti la piccola folla, euforica e vagamente stordita, di quelli che avevano già preso parte al rito. Ancora non sapevamo chi, non sapevamo cosa: ci siamo fatti strada per vedere.

E una volta dentro, ho visto.

Ho visto un locale di 20 metri quadri scarsi (un bancone, uno scaffale con poche bottiglie, un neon viola ed uno rosso, uno specchio kitsch, il più banale dei cessi in-fondo-a-destra) trasformarsi in tempio dell’ebbrezza e dell’allegria. Ho visto l’attore di cui sopra, insieme ad altri due, cambiare pelle, farsi ora barman, ora deejay. Li ho visti tramutare cicchetti di alcol scadente in ambrosia, un cellulare con Spotify collegato ad una cassa in un coro di sirene. C’erano quaranta gradi, c’era puzza; nessuno sembrava sentirli. Mi sono vista ondeggiare riflessa nello specchio kitsch; insieme a me si dimenava un’orda di estranei sudati, molti di questi erano col cellulare in mano a documentare l’evento e a diffonderlo sui social come discepoli 2.0.

Da agnostica, non sono in grado di dare un giudizio su quello che è accaduto; ho avuto l’impressione che più che reale fosse realistico, come una storia su Instagram. So che mi sono divertita, per la circostanza insolita e per il senso di straniamento.

Rimarrò, com’è prevedibile e forse giusto che sia quando si entra nella sfera dell’irrazionale, con una serie di domande irrisolte.

Cosa passava per la testa delle persone? Erano davvero tutti gasati, emozionati, contenti come sembrava? Si sono sentiti importanti, coinvolti in qualcosa di grande?

Che differenza c’è, realmente, tra i tre dietro al bancone e noi che stavamo davanti? Cosa significa essere famosi?

Cosa distingue chi, in queste situazioni, riesce a immedesimarsi e a vedere tutto ricoperto da una mano smalto dorato, da chi non riesce a dimenticarsi del contesto?

Va bene che erano le tre di notte e c’era un casino, ma lanciare un petardo dall’ultimo piano della palazzina a mo’ di avvertimento non sarà stato un pelino eccessivo?

Pensava a questo, Warhol, quando diceva che tutti avremmo avuto 15 minuti di celebrità? Voleva dire che la popolarità sarebbe diventata una faccenda letteralmente popolare, dei cui effetti si può beneficiare per caso o per osmosi?

E a proposito della frase di Warhol: pare che non sia stata lui a pronunciarla per la prima volta. Però, visto che è diventato famoso per citazioni e contaminazioni, nessuno ci ha mai fatto caso e tutti preferiscono continuare a pensare che sia stata partorita dalla sua mente.

Forse è proprio questo, il punto di tutta la faccenda: la celebrità continua ad attrarci non tanto per quello che è, ma per ciò che vogliamo credere che sia.

Redazione

Redazione Moralizzatore

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