Blade Runner 2049. La serialità che convince
di Emanuele Ingrao – L’uscita nelle sale lo scorso 5 Ottobre di Blade Runner 2049 rappresenta certamente uno degli eventi più attesi della stagione cinematografica 2017/2018. Ben trentacinque anni lo separano dal capolavoro di Ridley Scott, periodo durante il quale quest’ultimo si è sedimentato nell’immaginario della cultura pop, e nella memoria di cinefili e non, grazie a dei personaggi, dei monologhi, e un’indimenticabile Los Angeles notturna, diventati a pieno titolo di culto. Nonostante ciò, forse il lavoro visionario di Scott, tratto dal capolavoro fantapolitico di Philip K. Dick, non era stato abbastanza. Ci si chiede dunque: era veramente necessario scrivere, produrre, realizzare un sequel di Blade Runner? Dato il risultato, assolutamente sì. Si tratta di una mera operazione di marketing che punta molto sull’effetto nostalgia degli spettatori (molto in auge in tale momento storico)?
Probabilmente è anche questo, ma Blade Runner 2049 è un’opera di estrema perizia tecnica, e al tempo stesso carica di contenuti e di sequenze che lasciano a bocca aperta. Realizzato col massimo rispetto verso l’opera originaria, e con cura filologica nella ricostruzione degli scenari, questo sequel ne espande la piovosa estetica di noir sci-fi rendendola nevosa, è consapevole dei quesiti filosofico-esistenziali lasciati in sospeso dal primo film, e li riprende all’interno del viaggio di un eroe senza qualità di kafkiana memoria. Il film, ambientato trent’anni dopo il primo Blade Runner, segue le vicende dell’agente K, il quale, incaricato di ritirare gli ultimi replicanti ribelli di nuova generazione della Wallace Corporation, durante una missione vedrà le proprie certezze essere messe in discussione a seguito del menzionarsi di un “miracolo”, e del ritrovamento di una scatola, il cui contenuto rivela una verità che potrebbe compromettere per sempre la pacifica convivenza di generi tra umani e replicanti, ormai perfettamente integrati nella società.
Il film, che si avvale di un’estetica perfetta, ricostruisce la Los Angeles di Scott, e ne mostra la sua più completa alienazione, grazie all’utilizzo di numerosi campi lunghi e lunghissimi dall’alto, che mostrano non solo la bellezza delle vedute notturne dei grattacieli e delle insegne illuminate e coloratissime della città, ma anche le sue zone più degradate, come le discariche e i vasti campi di reietti, ormai completamente fuori dalla società del progresso. La regia di Denis Villeneuve è controllata, fa ampio uso di tempi dilatati (da qui anche i 163 minuti della pellicola), ed è impeccabile nella messinscena curata in ogni minimo dettaglio, grazie anche allo straodinario utilizzo delle luci da parte del direttore della fotografia, Roger Deakins.
Lo studio della composizione delle inquadrature da parte di Villeneuve è poetico quanto efficacissimo, decidendo di adottare, a seconda degli scenari, vari spettri di colori, che consentono perfettamente allo spettatore di esperire la vicenda, e di immedesimarsi nell’agente K. Lo spettatore percepisce l’odore della pioggia, l’umidità della neve, il caldo atroce del deserto. I trentacinque anni che separano i due film giovano pienamente, sul piano tecnico-grafico, a favore di questo sequel, che ricorre ad un utilizzo della CGI per nulla invasivo, e altresì fondamentale per la realizzazione di due tra le scene più belle ed emozionanti di tutta l’opera.
I fan più esigenti e titubanti non rimaranno delusi di fronte a numerose citazioni del primo film, quali ad esempio il look di Mariette, sicuro omaggio al personaggio di Pris interpretato da Daryl Hannah. La scena d’amore, al confine tra il reale e il virtuale, si guadagna a pieno merito il titolo di scena che mette i brividi per la sua bellezza tecnica e visiva. Assistiamo inoltre alla performance di un Ryan Gosling in formissima, il quale, nonostante mantenga la sua mono-bi espressività, riesce a dare umanità ed emozionalità a un personaggio in conflitto con se stesso e il sistema in cui vive.
Chi scrive condivide alcune delle critiche fatte al film, su tutte le troppe questioni lasciate in sospeso, e le musiche di Zimmer-Wallfisch, di certo non all’altezza di quelle di Vangelis, che ad ogni modo si sposano bene con le immagini. È inoltre consapevole delle numerose pagine che sono state scritte su questo film da studiosi e critici illustrissimi, e non intende assolutamente mettere in discussione la superiorità dell’immortale capolavoro di Scott. Semplicemente sostiene che, di certo, questo Blade Runner 2049 non andrà perduto come una lacrima nella pioggia.