Cultura

Una questione privata. La lirica della memoria

di Emanuele Ingrao – Una questione privata è l’ultima impresa cinematografica dei fratelli registi e sceneggiatori Paolo e Vittorio Taviani, veri e propri monumenti del cinema italiano.

I due cineasti scelgono coraggiosamente di affrontare un testo a loro estremamente caro, il romanzo Una questione privata di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel

1963, da cui il film prende il titolo, e che tratta di un argomento da loro realmente sentito e ampiamente studiato: la seconda guerra mondiale e la lotta

partigiana, di cui Fenoglio fu testimone e partecipe. I Taviani si approciano con estremo rispetto al testo di Fenoglio, pur essendo la loro opera un libero adattamento, nel tentativo di restituire fedelmente le suggestioni e le tematiche presenti nel romanzo. Nell’estate del 1943, in pieno clima resistenziale e di guerra civile italiana, assistiamo al vagare nella nebbia delle Langhe del giovane partigiano Milton (Luca Marinelli), lacerato dalle parole pronunciate dalla custode della villa presso la quale, prima della sua partecipazione al conflitto, aveva trascorso un periodo sereno in compagnia del suo migliore amico Giorgio (Lorenzo Richelmy) e della bellissima Fulvia (Valentina Bellè), della quale si innamora, e dalla gelosia che tali parole insinuano nella sua testa, creando in lui il sospetto di una possibile relazione amorosa tra i due. Assistiamo, inoltre, al disperato tentativo da parte di Milton di trovare un soldato nazifascista che faccia da merce di scambio con il nemico per liberare l’amico Giorgio, anch’egli soldato partigiano, nel frattempo fatto prigioniero, e chiedere a quest’ultimo la verità sul suo rapporto con Fulvia. L’incipit del film è di natura lirico-simbolica. La pellicola, infatti, inizia con una sequenza davvero memorabile. Viene mostrata, fin da subito, nel suo lento fluire, una fitta coltre di nebbia, elemento principe del paesaggio delle Langhe, e quel “mare di latte” spesso evocato nel capolavoro di Fenoglio. I fratelli Taviani, entrambi quasi novantenni, con quest’opera impartiscono, ancora una volta, lezioni di puro cinema attraverso la scelta di alcune soluzioni registiche vincenti. Decidono, infatti, così come precendetemente e recentemente aveva fatto un altro maestro del cinema italiano, Ermanno Olmi con il suo Torneranno i prati (2014), qui produttore del loro film,

nonchè loro amico, di trattare il materiale narrativo a loro dispozione evidenziandone l’aspetto lirico, piuttosto che quello epico. Il loro intento, sia sul piano registico che su quello narrativo, è quello di mostrare agli spettatori l’incidere della Grande Storia sull’uomo, in quanto singolo dotato di una sua unicità, e sui più deboli e umili, anch’essi partecipi e colpiti dalla portata di tali vicende storiche.

Nel seguire il viaggio del nostro Milton, i Taviani non hanno interesse a mostrarci grandi scene d’azione, esplosioni e fuochi d’artificio particolarmente spettacolari.

Sono sufficienti, per la rappresentazione della tragicità della guerra, alcuni elementi, ma essenziali: la precarietà giornaliera che governa la vita di quest giovani soldati che dormono sulla paglia, i quali, ricordiamo, oscillano tutti tra i diciotto e i vent’anni,

le quotidiane rappresaglie, gli scontri che vedono contrapporsi piccole divisioni delle due rispettive fazioni militari e ideologiche, in un contesto dove il colore della

divisa è elemento chiarificatore della barbaria di una guerra fratricida devastante. Struggente e da antologia la sequenza dell’incontro-scontro, obbligatoriamente silenzioso,

tra Milton e i suoi genitori. E lo è ancor di più, probabilmente, la sequenza, la più simbolica dell’opera, in cui una bambina, in presenza del totale silenzio della natura e del mondo, prima osserva, poi si sdraia a fianco dei suoi familiari appena fucilati. La fotografia di Simone Zampagni, abituale collaboratore dei Taviani, è freddissima, gelida, così come tutte le Langhe, ma davvero coerente con l’idea di una messinscena che conceda ampi spazi di lirismo ad un paesaggio-stato d’animo che diventa, non solo
uno dei personaggi principali del film, ma anche figurazione poetica dell’esperienza indicibile della guerra. Tale concetto è esplicato dalla presenza della nebbia naturale, ma anche da quella personale che offusca la mente del nostro Milton.

Luca Marinelli si conferma una delle più grandi speranze del nostro cinema. Straordinario nelle vesti del giovane Milton, considerato da tutti i suoi compagni come un eroe,

profondamente lacerato dalla gelosia che costituisce la sua energia vitale, ma anche la sua debolezza. Introverso, un po’ imbranato nei flashback della sua memoria, illuminati da una luce decisamente più calda. Dallo sguardo sempre più assente e sofferente, invece, man mano che procede la sua ricerca personale, e crollano le certezze della sua esistenza. Nella costruzione di questo personaggio, i Taviani e Marinelli richiamano la lettura cavalleresca che Italo Calvino diede del testo di Fenoglio, identificando in Milton un novello cavaliere errabondo, che deve affrontare un viaggio ricco di avventure alla ricerca di sé e dell’oggetto d’amore. Dolcissima, invece, è l’interpretazione di Valentina Bellè e della sua Fulvia, alla quale l’attrice, meravigliosamente diretta, regala un fare e un parlare

sognante, fanciullesco, puro, di dostoevskijana memoria. Si conferma una piacevolissima sorpresa anche Lorenzo Richelmy nei panni di Giorgio, recentemente apprezzato in sala in La ragazza nella nebbia.

Inoltre, uno degli elementi più interessanti di questo film è la musica. Sia quando produce stordimento e un affascinante distacco, essendo suonata da un prigioniero fascista, convinto di essere un grande batterista jazz, che quando ascoltiamo le note di Somewhere over the rainbow, vero e proprio leitmotiv del film. D’altronde, un filo rosso lega le avventure della piccola Dorothy a quelle dei soldati partigiani: quello della speranza di fare ritorno a casa. Una questione privata è un film meraviglioso, di cui il cinema italiano aveva bisogno. I fratelli Taviani riescono a rendere giustizia, con rispetto e grande ammirazione, al testo di Fenoglio, e dimostrano, ancora una volta, che il cinema italiano può innovarsi, incantare, e fare riflettere, facendo ciò che l’ha sempre contraddistinto. È impossibile, infatti, per il nostro cinema, pensare di poter fare affidamento su budget esorbitanti, e su meccanismi produttivi propri del cinema-industria hollywoodiano e non solo. I Taviani, in linea con la tradizione dei grandi autori italiani, di cui loro fanno parte, ci consegnano un’opera per nulla retorica o scontata, e in alcun modo moralistica, capace di creare nello spettatore delle sensazioni contrastanti. E

soprattutto, ci raccontano una vicenda di crisi umana con la sensibilità, la forza espressiva, e la poeticità nella composizione di ogni immagine, che da sempre sono il

loro marchio di fabbrica. Perciò, accorrete in sala, e non lasciatevi sfuggire questo piccolo gioiello

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