Un, due, tre – stella! L’ansia da omino multistrato
Al mondo, esiste l’ansia da prestazione, da stress, quella da trauma, quella da fobia e chi più ne ha più ne metta (io, ad esempio, c’ho l’ansia del piccione).
Per i poveri ristoratori, ci sta pure quella per la Guida Rossa. Niente a che fare con Mao, afflati bolscevichi o intenti comunisti: parliamo del simbolo di qualità che da un secolo tormenta tutti quelli che possiedono una bella cucina aperta al pubblico.
Ultima illustre vittima delle stelle è il buon Carlo Cracco ed il suo “Ristorante Cracco” di via Victor Hugo nel centro storico di Milano. I ben informati dicono si tratti di un monito lanciato al Carlone nazionale, per la sua massiva presenta in tv e la diserzione dalla cucina.
Di certo, è difficile pensare che Cracco, con oltre 10 anni di attività ad altissimi livelli (il suo ristorante ha la fama di essere tra i 50 migliori al mondo) rischi all’improvviso una flessione della qualità dei suoi servizi… E se pure non sta fisicamente tutto il giorno, tutti i giorni nella cucina del suo ristorante, non è lecito pensare che ne affidi la gestione ad un Marrabbio qualsiasi – già gestore del “Mambo” in quel di Milano 2, specializzato in fettine panate.
Ma cos’è la Guida Michelin? E perché le sue stelle sono così ambite?
Fondata nel 1900 dal colosso degli pneumatici, nasceva con l’intento di aiutare i viaggiatori on the road, segnalando officine, punti di rifornimento carburante, hotel, ristoranti e perfino ospedali (immagino una classifica tipo “una H non ne esci vivo, due H hai qualche chance, tre H ti rifanno nuovo”).
Riguardo ai ristoranti, ci trovate i migliori; quelli buoni ma entro i 35 euro sono accompagnati dalla faccina del Bib Gourmand, cioè l’omino Michelin, poi ci sono le cosiddette eccellenze. Ed è qui che entrano in gioco le stelle.
Gli ispettori della guida (in forma rigorosamente anonima) danno un’occhiata al circondario, poi prenotano, mangiano pagano e vanno via. Nel frattempo, valutano la qualità dei prodotti, la tecnica culinaria, l’equilibrio tra gli ingredienti, la personalità dello Chef, il rapporto qualità-prezzo e la costanza di rendimento, con un rating da una a tre stelle. Sono i clienti perfetti, discreti e pronti a saldare senza battere ciglio, che però possono mandarti dal gotha al cesso della categoria in due righe.
Ma torniamo al punto, e cioè al valore delle stelle.
1 Stella: ottima cucina nella sua categoria. Insomma, bene ma non benissimo. Lo chef ha qualche buona idea, la location è carina e la cantina discreta; il ristoratore diventa una piccola star nella propria regione, i coperti diminuiscono, i prezzi lievitano. In generale, hanno la fissa della destrutturazione e spesso un po’ di nostalgia per i tempi senza stella ed un pizzico di invidia per i venerdì tutto pieno dell’osteria di fronte. Ma vuoi mettere? C’hai la stella e il topino di Ratatouille te spiccia la sala.
2 Stelle: cucina eccellente, tale da meritare una deviazione nell’itinerario di viaggio. Si comincia a parlare di cose serie. Tecniche di preparazione innovative, sorprendente combinazione degli ingredienti, cantina di riguardo e servizio di buon livello. Le porzioni si restringono sempre di più, ma ogni boccone (anche se al massimo sono tre) diventa un’esperienza sensoriale e merita una (love) story su Instagram.
3 Stelle: una delle migliori cucine. Sedersi in questi ristoranti vale un viaggio intero. Insomma, il top del top in ambito ristorazione. Il paradigma della perfezione. Niente può essere fuori posto o scontato o semplicemente meno di ciò che ci si aspetta. Si dice che il personale addirittura coccoli gli zerbini, per predisporli meglio all’accoglienza.
Gli standard sono elevatissimi, al punto che uno dei più rinomati ristoranti francesi, Le Suquet a Laguiole, già detentore di tre stelle Michelin – praticamente l’olimpo della cucina francese – ha richiesto di non essere più incluso nella bibbia dei gastronauti, perché la pressione legata allo standard qualitativo espresso dal riconoscimento è troppa. Ci sarà poi da biasimarli?
Voglio dire, lavorare nella ristorazione (in generale, ma a certi livelli ancora di più) in effetti è davvero arduo e comporta tutta una serie di accortezze che possono sfuggire al controllo – sì, pure se lavori h24 come un distributore di preservativi e la tua soglia d’attenzione è più alta di quella di un secondino di Alcatraz (d’altra parte anche lì hanno chiuso i battenti).
In un ristorante, tutto può succedere: un capello finisce nel piatto (eh si, fatta eccezione per Joe Bastianich, può capitare), il lavapiatti sta depresso e ti sbecca il piatto da portata, il cameriere inciampa nel tappeto ottomano e scassa tutto, il vino sa di tappo ma anche il sommelier può avere l’influenza e il naso chiuso.
E tu, che per amore del tuo lavoro ti fai un mazzo grande quanto una cassettiera MALM di Ikea,ti puoi ritrovare improvvisamente bandito, messo all’indice e con una stella in meno. Tutto questo impegno, andrebbe premiato. Ed invece no, tu ti vuoi migliorare, diventi ambasciatore della cucina italiana nel mondo e la Giuda Rossa ti declassa.
Io dico che Cracco va avanti, cresce, guadagna e lo fa a modo suo; se questo comporta il sacrificio di una stella, poco male. La stella, del resto è lui. È proprio lui ad ispirare tanti ristoratori, migliaia di ragazzini che da grandi vogliono essere chef. Non è fantastico pensare ad un futuro in cui tutti mangiano e bevono bene?
Bravo Cracco, fa’ ciò che vuoi, sii te stesso e tutti noi. Ed in attesa di ammirare il tuo nuovo ristorante in Galleria, continueremo a sognare di vestire i tuoi panni e di essere amati ed apprezzati per quello che siamo e facciamo, e non per quello che un omino brutto, grasso e multistrato si aspetta da noi.