La Ruota delle Meraviglie. Decisioni e misfatti

di Emanuele Ingrao

Come di consueto, ormai, Woody Allen ogni anno ci regala un nuovo film, generalmente distribuito in Italia durante il periodo natalizio. Dopo il brillante Cafè Society dello scorso anno, il 2017 è l’anno di La ruota delle Meraviglie – Wonder Wheel, scritto e diretto, ancora una volta da Allen in persona, novello 82enne, e che segna la sua seconda collaborazione consecutiva con il grandissimo e nostrano direttore della fotografia Vittorio Storaro. Ci troviamo catapultati nella Coney Island degli anni Cinquanta, spettatori della storia di Ginny (Kate Winslet), una donna di quarant’anni totalmente insoddisfatta della propria vita, che lavora come cameriera al Ruby’s Clam House, nostalgica del suo passato di attrice e di giovane promessa del teatro, moglie di Humpty (Jim Belushi), un rozzo e ignorante addetto alle giostre del Luna Park, e madre di Richie, un bambino piromane. L’arrivo inaspettato in casa loro di Carolina (Juno Temple), la figlia del primo matrimonio di Humpty, con il quale aveva interrotto i rapporti da molti anni, e l’inizio di una relazione adulterina tra Ginny e il bagnino-sognatore Mickey (Justin Timberlake) scateneranno una serie di incomprensioni e di situazioni alle quali sarà impossibile non far fronte. La regolarità della produzione filmografica di Allen ha suscitato spesso, e continua a farlo, presso molti critici leciti sospetti circa la qualità delle ultime opere del regista newyorkese, accusandolo di tautologia e di optare, ormai, per il “buona la prima”. Sarebbe, però, sbagliato applicare queste critiche semplicistiche nei confronti del lavoro di un autore del calibro di Woody Allen, e nel caso specifico di Wonder Wheel. In questo film, infatti, Allen, avvalendosi del lavoro di un Vittorio Storaro in stato di grazia, si dimostra e riconferma in formissima nella costruzione della messinscena, nelle soluzioni registiche adottate e, come sempre, nella caratterizzazione e direzione dei suoi personaggi. La pellicola inizia con un’inquadratura davvero notevole: un campo lungo ci mostra la coloratissima spiaggia di Coney Island, e, nel mentre ascoltiamo il voice-over del narratore, a poco a poco si restringe, rivelandoci l’identità di quest’ultimo, il bagnino Mickey che guarda direttamente in macchina interpellando lo spettatore. Questo è solo il primo dei numerosi espedienti registici attraverso i quali l’autore ci meraviglia. Si potrebbe, infatti, criticare l’impostazione decisamente teatrale che Allen conferisce alla messinscena, giudicandola un mero esercizio di teatro filmato. Ma anche in questo caso si cadrebbe in errore. La regia di Allen è estremamente dinamica nel suo essere teatrale, facendo un ampio uso di lunghi piani sequenza durante i quali l’uso della macchina a mano consente di scavalcare gli attori, di ruotare attorno a loro trasmettendo un grande senso di movimento soprattutto nelle sequenze, la maggior parte, ambientate in spazi chiusi. Quando si tratta di dialoghi, invece, decide di conferire massima importanza al volto del personaggio che parla ponendolo in primo piano, accrescendo così la potenza della sua presenza in scena, e l’importanza di ciò che dice. La fotografia di Storaro, pur privilegiando nettamente i colori caldi, alterna e dosa sapientemente i contrasti cromatici e l’uso dei toni freddi. A tal proposito, una formula che Storaro adotta più volte è quella di riscaldare il volto della diva Winslet circondandola di un’aura che privilegia toni quali il rosso, l’arancione, il giallo e il rosa pastello, staccare dunque la sua figura a mò di silhouette dal fondo, illuminando poi l’intero scenario di un blu intenso, ma mai troppo cupo. Straordinarie anche le scenografie di Santo Loquasto, abituale collaboratore del regista a partire dagli anni Ottanta, efficaci sia nella rappresentazione del mondo-giocattolo in cui vivono i personaggi della storia, che in quella degli interni dell’abitazione-miniatura di Ginny e Humpty, sita proprio all’interno del Luna Park. Sono sicuramente numerose le autocitazioni alla propria filmografia, su tutte quelle nostalgiche a Radio Days (1987), opera del regista immeritatamente sottostimata, e troppo poco conosciuta, in cui Allen, tra cinismo e umorismo, ripercorre i momenti e gli aspetti più significativi della propria infanzia e dell’America di fine anni Quaranta inizio anni Cinquanta, gli anni in cui egli stesso si recava a Coney Island per mangiare qualche hotdogs, giocare in spiaggia, e rimorchiare qualche bella ragazza. Ma è impossibile non trovare delle analogie, a proposito del protagonismo di un personaggio femminile nevrotico, tra questa pellicola e il precedente Blue Jasmine (2013), con una straordinaria Cate Blanchett, meritatamente vincitrice dell’Oscar. Ma, se in Blue Jasmine prevale la satira sociale e il racconto di una vita vissuta nella menzogna, in Wonder Wheel il dramma che consuma la protagonista è molto più profondo, e con ripercussioni devastanti su chi la circonda. E sebbene, probabilmente, l’interpretazione della Blanchett risulti essere superiore a quella della Winslet, ciò andrebbe rintracciato nel fatto che il personaggio di Jasmine giganteggia in ogni istante della pellicola, supportata, inoltre, da un testo maggiormente cucitole addosso, che le consente istrionicamente di mostrare molte più sfumature della nevrosi autoriale alleniana. La recitazione della Winslet, invece, altrettanto straordinaria, trova una grandissima forza espressiva proprio in relazione a quella degli altri personaggi della vicenda, ciascuno dei quali viene mirabilmente tratteggiato dalla penna di Allen con poche ma imprescindibili informazioni, che lasciano allo spettatore la facoltà di immaginare e costruire nella propria mente diversi percorsi possibili per ciascuno di loro. Ed è in tal senso che Wonder Wheel costituisce una piccola fenomenologia delle passioni e dei comportamenti umani. Degna di nota anche l’interpretazione di Jim Belushi, per il quale il 2017 è stato un anno indimenticabile, e del quale abbiamo potuto apprezzare una grande prova nella terza stagione di Twin Peaks. Il personaggio di Humpty, infatti, riesce a modulare diversi registri di voce, passando dal comico al tragico, fino al patetico. Incantevole, invece, la performance di Juno Temple, rappresentazione di un’idea di amore puro, ingenuo, incorrotto, interprete di un personaggio la cui virtù più grande è la spontaneità. Lei è il vero e proprio faro di luce della storia, una presenza così forte quando si trova in scena, da scatenare reazioni sempre decisive per il prosieguo dello sviluppo narrativo e per lo sviluppo delle relazioni tra i personaggi; meravigliosa tutte le volte che Storaro ce la presenta su sfondi dalle tonalità blu notte. Inaspettatamente buona anche la prova di Timberlake che colleziona, dopo Fincher, Kelly e i fratelli Cohen, un’altra collaborazione prestigiosa. Risulta, invece, altamente simbolico il personaggio del piccolo Richie, il quale, conscio del fatto che la madre sia stata la causa della rovina del matrimonio con il suo vero padre, esprime tutto il dolore e il senso di abbandono a se stesso che prova dando fuoco alle cose, oppure chiedendo o rubando in continuazione dei soldi per andare al cinema, l’unica dimensione che gli consente di evadere dalla realtà e di sognare ad occhi aperti. Wonder Wheel è un film che parla all’essere umano, lo sollecita a riflettere sulla vita come messinscena, come nel caso di Ginny che, divorata dalla gelosia e insoddisfatta dell’immagine di donna che traspare di sé, confessa di stare solamente recitando la parte di una cameriera, e di essere capace di interpretare ruoli ben più ambiziosi. Ma è anche un film che parla di egoismo, di amore, e dei diversi modi di viverlo. Amore come forza spontanea, imprevedibile e rigeneratrice, ma anche amore come annientamento di se stessi. Ma è, soprattutto, un film che ragiona sul senso della responsabilità umana, sul peso delle scelte e delle colpe, sulla possibilità o meno di convivere con quest’ultime, e sulle conseguenze che queste hanno sulla vita di chi ci sta vicino. Infine, sicuramente qualcuno continuerà a storcere il naso nei confronti di questa pellicola, ma è indubbia la notevole complessità tecnica che quest’ultima ha richiesto. Allen, da grande umorista quale è, decide di proporre un testo che, stavolta come altre, cerca maggiormente i toni del dramma piuttosto che quelli della commedia. Pochi sono, infatti, i momenti in cui si riderà nel corso della visione, tanti, invece, quelli in cui ci si sentirà indotti a fare non facili autocritiche. Ed è proprio qui che troveremo il confronto con un altro grande lavoro alleniano, Crimini e misfatti.