“A casa tutto bene”. Io invece un po’ meno

Questa non è una recensione. Metto le mani avanti e piazzo qualche riga di lato, nel blog, dove tutto o quasi è permesso. O forse non lo è, una recensione dico,  perché forse è meglio non recensire l’ennesimo film, il peggiore forse, di un italianissimo Muccino. E poi dopo aver letto che Rolling Stone [ve lo linko qui, vi prego…] lo loda con un 4 stelle su 5, buttando giù proibitivi paragoni con Scola e Monicelli e definendolo “uno dei nostri regista più bravi”, ecco dopo questo voglio scappare dalle recensioni.

Tornando a noi. Questa non è una recensione ma una cronaca di una domenica sera anti-estetica e neorealista. Andare al cinema è bello, e da quando ci vado senza dover scrivere subito dopo di quello che ho visto, in fondo ha ritrovato il suo significato nella bellezza del luogo, nella compagnia di amici, amori, o persone che vuoi vedere, incrociare, magari la vera ragione del cinema. Ti accodi allora anche alla visione di un Muccino originale, in sala ancora per poco (che fortuna!). Poi però ti accorgi a fine film che devi correre ai ripari. Scrivere qualcosa è d’obbligo. Per la tua coscienza, per i posteri e per tutto il cinema che non riesce a star a galla e qui vedi sperperare valanghe di euro. Ma è il mercato, si sa.

La famiglia è il cruccio del cinema di Muccino, la sua lente sul mondo passa dall’idea di famiglia incasinata e allargata. Ha una fissa per la sua cara “famiglia Ristuccia”, nome che ritorna in almeno 3 dei suoi film oltre che in quest’ultimo, quasi un fil rouge, firma spirituale e romantica per i più attenti. Tutto è iniziato con l’Ultimo Bacio e sembra (speriamo) chiudersi qui, che segna il quarto e ultimo di una certa tetralogia. In questa parabola lunga 17 anni (dal 2001 ad oggi) questa famiglia è cambiata poco, e di sicuro è peggiorata. Teatrino di falsità, sentimenti di plastica, borghesia della domenica e cinismo tra le righe, Muccino fa muovere i suoi personaggi sempre troppo abbozzati, con poche cose da dire, e comunque banali.

A casa tutto bene quindi riprende quei soliti stilemi di coralità, di micromondo familiare in una situazione tipica di aggregazione che costringe la famiglia a radunarsi; in questo caso le nozze d’oro dei nonni. Poi l’imprevisto, l’incastro, tutti bloccati su un’isola. Il gioco è fatto. Al via la fiera di ansimanti amori, il risvegliarsi di odii, gelosie e asti. Fin qui la struttura è comunque quella che proprio Ettore Scola mette in piedi in alcune sue opere, La terrazzaLa famiglia per es. Ma è nell’assenza di scrittura, nella completa superficialità dei personaggi che tutto si arena nel cinema di Muccino. A tenere è la bravura indiscussa di molti elementi di un cast sicuramente stellare, per un cinema tutto italiano. Partendo da Sandra Milo e  Stefania Sandrelli passando per Gianmarco Tognazzi, Claudia Gerini, l’onnipresente Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, fino a Carolina Crescentini, Tea Falco e Valera Solarino. Insomma una cast a tanti zeri.

Tra finti quadretti familiari, pranzi, cene e sentimenti di tutte le forme, il film scivola per oltre 100 minuti di incredulità estetica. Ma anche di neorelismo, come sembra pontificare il vecchietto di fronte la mia poltrona nell’intervallo. Già spiega bene lui, che in fondo ci si immedesima. Che il segreto della riuscita di un film del genere è una sorta di neorealismo. Forse è vero. Forse la riflessione sul naufragare della famiglia tradizionale non fa una piega. Ma la soluzione e la catarsi non possono passare per una Sandrelli che dice al figlio, Stefano Accorsi, che lui scrittore, non ha bisogno di una famiglia tradizionale, che lui potrà vivere le vite e le famiglie dei mille personaggi che disegnerà. Brivido. Sipario. Come sono tante altre le trovate aberranti tra un dialogo urlato ed un altro, tra una corsa sotto la pioggia e stati confusionari incomprensibili. Il film si placa sull’immancabile speranza di felicità. Un happy ending dolce-amaro. Un racconto di amore stropicciato che ha resistito alle intemperie, malamente sopravvissuto e che forse sul finire può aspirare ad un poco di felicità. Giusto un poco, quel che ne resta.

No. Non lo consiglio. Ma tanto molti di voi lo vedranno lo stesso. Quindi magari segno le poche cose che mi hanno tenuto vivo durante il film. Un Favino sempre in stato di grazia. La tragicomica Sandra Milo, a cui avrei regalato molto più spazio. Massimo Ghini, che ha perso la memoria ma che non ha dimenticato come si ama ed è l’unico che sa dirlo per davvero. E un Gianmarco Tognazzi sempre (o quasi) bravo, giullare disperato della compagnia.