L'informazione fuori dal gregge

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Ciao Palermo! – Lettera aperta alla città di Palermo.

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Il video che ha visto sfrecciare Verstappen a bordo di una Formula 1 tra le strade di Palermo, da Mondello a Ballarò, e che nel giro di pochi giorni ha fatto il giro del mondo raggiungendo milioni di visualizzazioni nasce da un’idea di Just Maria, la video company nata all’ombra di Monte Pellegrino nel 2017 da Alessandro Albanese e Carlo Loforti.

Una Formula 1 che sfreccia per Palermo. Verstappen che la pilota in vista del Gran Premio di Monza. E una realtà tutta palermitana a immaginare tutto questo. Il video della Red Bull che nel giro di pochi giorni ha fatto il giro del mondo raggiungendo milioni di visualizzazioni porta infatti la firma di Just Maria, la video company nata alle pendici di Monte Pellegrino nel 2017 dalla volontà, dalla passione e dall’incoscienza dei suoi fondatori e direttori creativi: Alessandro Albanese e Carlo Loforti. Sono stati questi due palermitani a portare il progetto a Palermo, presentando l’idea al brand titolare della scuderia per la quale corre il pilota olandese. 

Attraverso una lettera aperta, rivolta in tono confidenziale alla città e diffusa grazie ai loro canali social, Just Maria racconta per la prima volta il dietro le quinte di un progetto.

Ciao Palermo!
Come va? Alti e bassi come sempre? Sì, anche noi. Come tutti.
Te ne sei andata in giro in questi giorni, eh! Sei arrivata ovunque.
Ti sei messa un bel vestito – dicono – e sei andata a fare pubbliche relazioni in giro per il mondo.
Che ne dici di fare due chiacchiere da soli, adesso?

Leggi la Lettera integrale Just Maria

 

 

Ritorno a Linosa

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Cosa significa un’isola in mezzo al mediterraneo non è facile da scrivere, fotografare o raccontare,  se non giocandosi quei 4 cliché da cartolina. Forse si può solo vivere e ricordare. E sarà comunque un ricordo fortissimo. Linosa è forse una delle più belle di queste perle disperse nel mare, di sicuro la più incontaminata, che vuol dire, in altre parole, anche la più isolata. Tante le difficoltà logistiche, i disagi per i ragazzi che vogliono studiare, lavorare. Ma rimane certamente uno il problema fondamentale. L’amore viscerale che li lega a questo brandello di terra ancorato alle onde del mare. Il loro diventa un’altalena perenne, un ritorno continuo verso l’isola. Necessariamente. La fotografa Luana Rigolli, classe 83, frequentatrice dell’isolotto siciliano e già impegnata in un progetto di più ampio respiro su Linosa, durante questo agosto ha ideato una mostra allo scalo vecchio, ideale porta dell’isola. Da qui si vae si viene.

Così la giovane fotografa, dallo sguardo schietto e con la sua fotografia sincera e neorealista ha portato a galla 34 ritratti di giovani linosani. Una sineddoche per tutti i giovani dell’isola che affrontano questo continuo ritorno e lo portano scritto nei volti, tra sorrisi e responsabilità. La mostra è allestita da giorno 18 agosto e sarà visibile sui massi allo scalo vecchio di Linosa, 24h. Un’occasione unica per entrare in contatto con questo codice binario, fatto di arrivi e partenze che descrive forse in modo essenziale e completo la vita di una piccola isola, dei suoi abitanti e forse anche quello degli abitanti di passaggio, spesso detti turisti, a volte un pò isolani anche loro.

 

Per informazioni e contatti

info@luanarigolli.it
www.luanarigolli.it

 

 

“A casa tutto bene”. Io invece un po’ meno

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Questa non è una recensione. Metto le mani avanti e piazzo qualche riga di lato, nel blog, dove tutto o quasi è permesso. O forse non lo è, una recensione dico,  perché forse è meglio non recensire l’ennesimo film, il peggiore forse, di un italianissimo Muccino. E poi dopo aver letto che Rolling Stone [ve lo linko qui, vi prego…] lo loda con un 4 stelle su 5, buttando giù proibitivi paragoni con Scola e Monicelli e definendolo “uno dei nostri regista più bravi”, ecco dopo questo voglio scappare dalle recensioni.

Tornando a noi. Questa non è una recensione ma una cronaca di una domenica sera anti-estetica e neorealista. Andare al cinema è bello, e da quando ci vado senza dover scrivere subito dopo di quello che ho visto, in fondo ha ritrovato il suo significato nella bellezza del luogo, nella compagnia di amici, amori, o persone che vuoi vedere, incrociare, magari la vera ragione del cinema. Ti accodi allora anche alla visione di un Muccino originale, in sala ancora per poco (che fortuna!). Poi però ti accorgi a fine film che devi correre ai ripari. Scrivere qualcosa è d’obbligo. Per la tua coscienza, per i posteri e per tutto il cinema che non riesce a star a galla e qui vedi sperperare valanghe di euro. Ma è il mercato, si sa.

La famiglia è il cruccio del cinema di Muccino, la sua lente sul mondo passa dall’idea di famiglia incasinata e allargata. Ha una fissa per la sua cara “famiglia Ristuccia”, nome che ritorna in almeno 3 dei suoi film oltre che in quest’ultimo, quasi un fil rouge, firma spirituale e romantica per i più attenti. Tutto è iniziato con l’Ultimo Bacio e sembra (speriamo) chiudersi qui, che segna il quarto e ultimo di una certa tetralogia. In questa parabola lunga 17 anni (dal 2001 ad oggi) questa famiglia è cambiata poco, e di sicuro è peggiorata. Teatrino di falsità, sentimenti di plastica, borghesia della domenica e cinismo tra le righe, Muccino fa muovere i suoi personaggi sempre troppo abbozzati, con poche cose da dire, e comunque banali.

A casa tutto bene quindi riprende quei soliti stilemi di coralità, di micromondo familiare in una situazione tipica di aggregazione che costringe la famiglia a radunarsi; in questo caso le nozze d’oro dei nonni. Poi l’imprevisto, l’incastro, tutti bloccati su un’isola. Il gioco è fatto. Al via la fiera di ansimanti amori, il risvegliarsi di odii, gelosie e asti. Fin qui la struttura è comunque quella che proprio Ettore Scola mette in piedi in alcune sue opere, La terrazzaLa famiglia per es. Ma è nell’assenza di scrittura, nella completa superficialità dei personaggi che tutto si arena nel cinema di Muccino. A tenere è la bravura indiscussa di molti elementi di un cast sicuramente stellare, per un cinema tutto italiano. Partendo da Sandra Milo e  Stefania Sandrelli passando per Gianmarco Tognazzi, Claudia Gerini, l’onnipresente Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, fino a Carolina Crescentini, Tea Falco e Valera Solarino. Insomma una cast a tanti zeri.

Tra finti quadretti familiari, pranzi, cene e sentimenti di tutte le forme, il film scivola per oltre 100 minuti di incredulità estetica. Ma anche di neorelismo, come sembra pontificare il vecchietto di fronte la mia poltrona nell’intervallo. Già spiega bene lui, che in fondo ci si immedesima. Che il segreto della riuscita di un film del genere è una sorta di neorealismo. Forse è vero. Forse la riflessione sul naufragare della famiglia tradizionale non fa una piega. Ma la soluzione e la catarsi non possono passare per una Sandrelli che dice al figlio, Stefano Accorsi, che lui scrittore, non ha bisogno di una famiglia tradizionale, che lui potrà vivere le vite e le famiglie dei mille personaggi che disegnerà. Brivido. Sipario. Come sono tante altre le trovate aberranti tra un dialogo urlato ed un altro, tra una corsa sotto la pioggia e stati confusionari incomprensibili. Il film si placa sull’immancabile speranza di felicità. Un happy ending dolce-amaro. Un racconto di amore stropicciato che ha resistito alle intemperie, malamente sopravvissuto e che forse sul finire può aspirare ad un poco di felicità. Giusto un poco, quel che ne resta.

No. Non lo consiglio. Ma tanto molti di voi lo vedranno lo stesso. Quindi magari segno le poche cose che mi hanno tenuto vivo durante il film. Un Favino sempre in stato di grazia. La tragicomica Sandra Milo, a cui avrei regalato molto più spazio. Massimo Ghini, che ha perso la memoria ma che non ha dimenticato come si ama ed è l’unico che sa dirlo per davvero. E un Gianmarco Tognazzi sempre (o quasi) bravo, giullare disperato della compagnia.

 

 

 

Cosa mangeremo nel 2040? Ecco alcuni cibi del futuro

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Secondo le ultimissime stime dell’ONU, nel 2040 il nostro pianeta sarà abitato da ben 9 miliardi di persone. Una cifra esorbitante che renderebbe le attuali risorse insufficienti al sostentamento del pianeta. Per questo motivo, sarà necessario raddoppiare la produzione mondiale di cibo, riducendo così sprechi e sperimentando nuovi generi alimentari. Serve, dunque, un modo alternativo di concepire l’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse. Vediamo insieme quali saranno alcuni degli alimenti che in futuro potrebbero invadere le nostre tavole.

CARNE ARTIFICIALE

Già nel  2013 è nato il primo hamburger artificiale e gli studi in questo campo progrediscono notevolmente. La “carne artificiale” potrebbe essere una soluzione del futuro contro la macellazione di  animali. Nei prossimi anni le biotecnologie potrebbero creare in laboratorio la carne, estraendo le cellule di bovino vivo fatte poi crescere per diventare tessuto e muscolo.

ALGHE

Chi frequenta i ristoranti giapponesi ha una certa familiarità con le alghe. Basti pensare al sushi o alla celebre insalata “wakame“. Quest’ultima in Giappone ha rappresentato dal 700 a.C. una fonte nutrizionale importantissima. L’alga wakame è infatti fonte ricchissima di proteine, minerali, vitamine e fibre. Inoltre, le alghe, che crescono sott’acqua con grande facilità e in tutte le condizioni ambientali, non sottraggono spazi destinati all’agricoltura di ortaggi.

INSETTI

E siamo arrivati alla nota dolente, perché- si sa- mangiare insetti appare disgustoso in occidente. Tuttavia, in gran parte del mondo mangiare millepiedi, vermi, farfalle, tarantole, scarabei e altri insetti è cosa normalissima. Infatti, in Africa, America Latina, Asia e Oceania gli insetti fanno parte della dieta tradizionale.

Su internet è possibile reperire ricette molto particolari come “polenta e scorpioni fritti” (se interessati, ecco il link). Quali insetti si mangiano? Ragni, larve, grilli, cavallette, cicale, formiche, termiti, bruchi e vermi, scorpioni, lumache e millepiedi. E non mancano ricette come spiedini di grilli, blatte in salsa, cioccolato alle termiti, lecca lecca alle formiche. Il consumo di insetti sembra essere vantaggioso per la facilità nell’allevarli e per il loro alto potenziale nutritivo. In Europa qualcosa sta cambiando a riguardo. Gli insetti, infatti, rientrano tra i “Novel Food“, come spiega il Regolamento (CE) 258/97.

“IN ITALIA NON SONO PERMESSI”

Tramite una nota inviata l’8 gennaio scorso, il Ministero della Salute chiarisce che “al momento nessuna specie di insetto (o suo derivato) è autorizzata a scopo alimentare in Italia“.

Tutti i prodotti che rientrano nelle categorie definite dal Regolamento Ue, privi di una storia significativa di consumo alimentare nell’Unione europea al 15 maggio del 1997, sono da considerarsi ‘novel food’ e la loro autorizzazione deve essere richiesta ora alla Commissione europea, seguendo le linee guida recentemente pubblicate dall’Efsa

Dunque,  i prodotti considerati “novel food” sono ancora vietati in Italia. Come spiega la nota, al momento “in Italia non è stata ammessa alcuna commercializzazione di insetti e pertanto la commercializzazione come alimento di un insetto o di un suo derivato potrà essere consentita solo quando sarà rilasciata a livello Ue una specifica autorizzazione in applicazione del regolamento“.

Un piano per il fiume Oreto: l’idea di Igor

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Il protagonista della storia che stiamo per raccontarvi è Igor D’India, trentatreenne palermitano, che ha postato un video che ha conquistato la rete in sole tre settimane. Igor di mestiere fa il videomaker e dal 2005 gira il mondo in cerca di storie. Ultimamente ha realizzato un reportage per raccontare le condizioni del fiume Oreto di Palermo che, come tutti i palermitani sanno, è stato a lungo abbandonato a se stesso e, pertanto, non versa in buone condizioni.

Oggi abbiamo raggiunto telefonicamente Igor, che ci ha raccontato le sue idee in merito. E non solo.

Al momento non esiste un progetto vero e proprio. Ho espresso la mia opinione tramite un video che è diventato virale e in tempi record ha coinvolto istituzioni e associazioni”, ci racconta con voce ancora sorpresa. Igor, infatti, non immaginava che quest’idea avrebbe avuto così tanto successo. “Il video era semplicemente uno dei contenuti che condivido sul mio blog e sui miei canali“.

DA COSA È NATO L’INTERESSE VERSO IL FIUME

Il giovane ci spiega che  negli ultimi anni ha avuto la possibilità di conoscere moltissime realtà fluviali grazie a “The Raftmakers“, progetto che uscirà in primavera. “Il mio piano di recupero del fiume Oreto prende spunto dai piani che ho visto attuare e che hanno avuto successo. In questo piano è prevista la collaborazione tra istituzioni e associazioni e sicuramente in un secondo momento anche di varie aziende”.

IL FUTURO E LA FORZA DELLE IDEE

Per discutere di questa idea, proprio qualche giorno fa  si è svolto a Palermo un incontro tra associazioni culturali e ambientali e istituzioni. “Ho visto tantissimo entusiasmoracconta Igor– e sorprendentemente tutti hanno guardato al futuro, senza soffermarsi su sterili polemiche  e accogliendo il mio appello. Sembra che sia stato messo il primissimo mattone per costruire questo ponte immaginario tra noi e il fiume”. E continuando a parlare di progetti futuri, non mancherebbero buoni propositi per ridar vita al fiume. Sarebbe previsto nei prossimi tre mesi un altro incontro tra la Regione e i comuni di Palermo, Altofonte e Monreale e proprio dopo questo atteso appuntamento potrebbero cambiare le sorti dell’Oreto.

Dobbiamo tener vivo il dibattito con nuove idee. Far circolare idee è essenziale ed efficace, soprattutto per mezzo dei video e di internet. Ma l’idea non basta. Bisogna attuare da principio un piano operativo, anche a piccoli passi

“DO WHAT YOU CAN’T”

Il videomaker a Febbraio lascerà l’Italia per una spedizione in Alaska fra i ghiacci dell’Artico e in mezzo agli indiani d’America. “Vado a scoprire come si vive oggi nei ghiacci del grande Nord“. “Non hai paura?” chiediamo.

Concludendo, risponde: “Dubbi mai, paura sempre. La mia paura è una paura buona, che mi mantiene attento. Una paura costruttiva che non mi paralizza. Non ho ancora fatto abbastanza e c’è davvero poco tempo. Fate quello che non potete, diceva Casey Neistat. È questo uno dei miei motti preferiti”.

 

Un, due, tre – stella! L’ansia da omino multistrato

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Al mondo, esiste l’ansia da prestazione, da stress, quella da trauma, quella da fobia e chi più ne ha più ne metta (io, ad esempio, c’ho l’ansia del piccione).

Per  i poveri ristoratori, ci sta pure quella per la Guida Rossa. Niente a che fare con Mao, afflati bolscevichi o intenti comunisti: parliamo del simbolo di qualità che da un secolo tormenta tutti quelli che possiedono una bella cucina aperta al pubblico.

Ultima illustre vittima delle stelle è  il buon Carlo Cracco ed il suo “Ristorante Cracco” di via Victor Hugo nel centro storico di Milano. I ben informati dicono si tratti di un monito lanciato al Carlone nazionale, per la sua massiva presenta in tv e la diserzione dalla cucina.

Di certo, è difficile pensare che Cracco, con oltre 10 anni di attività ad altissimi livelli (il suo ristorante ha la fama di essere tra i 50 migliori al mondo) rischi all’improvviso una flessione della qualità dei suoi servizi… E se pure non sta fisicamente tutto il giorno, tutti i giorni nella cucina del suo ristorante, non è lecito pensare che ne affidi la gestione ad un Marrabbio qualsiasi – già gestore del “Mambo” in quel di Milano 2, specializzato in fettine panate.

Ma cos’è la Guida Michelin? E perché le sue stelle sono così ambite?

Fondata nel 1900 dal colosso degli pneumatici, nasceva con l’intento di aiutare i viaggiatori on the road, segnalando officine, punti di rifornimento carburante, hotel, ristoranti e perfino ospedali (immagino una classifica tipo “una H non ne esci vivo, due H hai qualche chance, tre H ti rifanno nuovo”).

Riguardo ai ristoranti, ci trovate i migliori; quelli buoni ma entro i 35 euro sono accompagnati dalla faccina del Bib Gourmand, cioè l’omino Michelin, poi ci sono le cosiddette eccellenze. Ed è qui che entrano in gioco le stelle.

Gli ispettori della guida (in forma rigorosamente anonima) danno un’occhiata al circondario, poi prenotano, mangiano pagano e vanno via. Nel frattempo, valutano la qualità dei prodotti, la tecnica culinaria, l’equilibrio tra gli ingredienti, la personalità dello Chef, il rapporto qualità-prezzo e la costanza di rendimento, con un rating da una a tre stelle. Sono i clienti perfetti, discreti e pronti a saldare senza battere ciglio, che però possono mandarti dal gotha al cesso della categoria in due righe.

Ma torniamo al punto, e cioè al valore delle stelle.

1 Stella: ottima cucina nella sua categoria. Insomma, bene ma non benissimo. Lo chef ha qualche buona idea, la location è carina e la cantina discreta; il ristoratore diventa una  piccola star nella propria regione, i coperti diminuiscono, i prezzi lievitano. In generale, hanno la fissa della destrutturazione e spesso un po’ di nostalgia per i tempi senza stella ed un pizzico di invidia per i venerdì tutto pieno dell’osteria di fronte. Ma vuoi mettere? C’hai la stella e il topino di Ratatouille te spiccia la sala.

2 Stelle: cucina eccellente, tale da meritare una deviazione nell’itinerario di viaggio. Si comincia a parlare di cose serie. Tecniche di preparazione innovative, sorprendente combinazione degli ingredienti, cantina di riguardo e servizio di buon livello. Le porzioni si restringono sempre di più, ma ogni boccone (anche se al massimo sono tre) diventa un’esperienza sensoriale e merita una (love) story su Instagram.

3 Stelle: una delle migliori cucine. Sedersi in questi ristoranti vale un viaggio intero. Insomma, il top del top in ambito ristorazione. Il paradigma della perfezione. Niente può essere fuori posto o scontato o semplicemente meno di ciò che ci si aspetta. Si dice che il personale addirittura coccoli gli zerbini, per predisporli meglio all’accoglienza.

Gli standard sono elevatissimi, al punto che uno dei più rinomati ristoranti francesi, Le Suquet a Laguiole, già detentore di tre stelle Michelin – praticamente l’olimpo  della cucina francese –  ha richiesto di non essere più incluso nella bibbia dei gastronauti, perché la pressione legata allo standard qualitativo espresso dal riconoscimento è troppa. Ci sarà poi da biasimarli?

Voglio dire, lavorare nella ristorazione (in generale, ma a certi livelli ancora di più) in effetti è davvero arduo e comporta tutta una serie di accortezze che possono sfuggire al controllo – sì, pure se lavori h24 come un distributore di preservativi e la tua soglia d’attenzione è più alta di quella di un secondino di Alcatraz (d’altra parte anche lì hanno chiuso i battenti).

In un ristorante, tutto può succedere: un capello finisce nel piatto (eh si, fatta eccezione per Joe Bastianich, può capitare), il lavapiatti sta depresso e ti sbecca il piatto da portata, il cameriere inciampa nel tappeto ottomano e scassa tutto, il vino sa di tappo ma anche il sommelier può avere l’influenza e il naso chiuso.

E tu, che per amore del tuo lavoro ti fai un mazzo grande quanto una cassettiera MALM di Ikea,ti puoi ritrovare improvvisamente bandito, messo all’indice e con una stella in meno. Tutto questo impegno, andrebbe premiato. Ed invece no, tu ti vuoi migliorare, diventi ambasciatore della cucina italiana nel mondo e la Giuda Rossa ti declassa.

Io dico che Cracco va avanti, cresce, guadagna e lo fa a modo suo; se questo comporta il sacrificio di  una stella, poco male. La stella, del resto è lui. È proprio lui ad ispirare tanti ristoratori, migliaia  di ragazzini che da grandi vogliono essere chef. Non è fantastico pensare ad un futuro in cui tutti mangiano e bevono bene?

Bravo Cracco, fa’ ciò che vuoi, sii te stesso e tutti noi. Ed in attesa di ammirare il tuo nuovo ristorante in Galleria, continueremo a sognare di vestire i tuoi panni e di essere amati ed apprezzati per quello che siamo e facciamo, e non per quello che un omino brutto, grasso e multistrato si aspetta da noi.

Elezioni regionali, i partiti come yogurt scaduti. Quale scegliere?

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Il sei novembre, il giorno dopo le elezioni regionali, si avranno i risultati elettorali. Non accadrà di notte come sempre ma il giorno dopo, perché la Regione ha deciso così. Il lunedì mattina quindi, presumibilmente a pranzo, avremo i dati definitivi, avremo un vincitore che con molta probabilità non avrà subito una maggioranza parlamentare, quella arriverà dopo. Non possiamo pubblicare sondaggi per legge e non abbiamo neanche le risorse per commissionarne ma il nostro lavoro è fatto di ascolto e analisi della vita reale. Come nel 2012 il Movimento 5 Stelle ha riempito le piazze durante il loro tour elettorale mentre gli altri candidati, Musumeci, Micari e Fava hanno a malapena riempito le sale in cui raccontavano la loro ricetta per risollevare la regione. Fatta eccezione per Fava, gli altri due propongono ricette per risollevare una terra che le loro compagini hanno affossato.

Ora i grillini potranno anche darvi fastidio con i loro scontrini e le beghe interne, potranno anche essere volgari con i loro vaffanculo e anche illusi con le loro ricette alternative e la loro visione del futuro. Faremo un esempio per evitare di apparire militanti, quali non siamo.

Al supermercato avete provato degli yogurt nel corso del mese. Il primo che avete comprato aveva una bella confezione, avete visto la pubblicità in televisione e lo avete comprato e mangiato a casa. Vi ha fatto male, non lo comprerete più, anche perché è stato ritirato dal mercato (Crocetta). Poi l’azienda che produceva quello yogurt ha cambiato confezione, ma la materia è sempre la stessa e ha ricominciato la pubblicità in tv. Lo comprereste sapendo che vi ha fatto male? (Micari).

Qualche giorno dopo al supermercato volete provarne uno della marca concorrente (Musumeci), solo che qualche anno fa lo avete provato e sempre male vi ha fatto, tanti soldi per un prodotto scadente e senza garanzie. Lo ricomprereste?

Tra gli scaffali scorgete un altra marca di yogurt, che fino a qualche tempo fa non era tra gli scaffali, perché l’azienda li aveva immessi sul marcato già scaduti (Fava). Questa volta vi fidereste? Se un’azienda non controlla neanche le date di scadenza e poi invia i prodotti sul banco frigo di un supermercato come potrebbe preparare degli yogurt decenti?!

Bene, poi quando state per uscire senza yogurt nel carrello, in uno scaffale “ultime occasioni” c’è una marca di yogurt mai provata prima, una marca che in tv non vedete spesso, poco pubblicizzata dalle radio e sui manifesti in giro per le strade. Ma è nel banco “ultime occasioni” e siete senza yogurt nel carrello. Qualcosa a casa la dovete portare. A voi la scelta.

Kobe mi diverto. La fortuna di essere manzo

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Immaginate di essere un bue, destinato dalla nascita alla macellazione. Immaginate però di essere un bovino giapponese di razza Tajima, nato a Kobe, sull’isola di Honshu in Giappone.

Allora sarete sì destinati ad una brutta fine nel pieno della vostra esistenza, ma avrete vissuto una vita che la maggior parte dei bipedi umanoidi se la sogna.

Il manzo Kobe è probabilmente la varietà più prelibata al mondo, vero e proprio Graal per gli accoliti della carne rossa.

La sua caratteristica principale è la marezzatura (cioè la presenza di venature di grasso all’interno del tessuto muscolare) praticamente perfetta, un equilibrio mistico tra “carne” e grasso, ma un grasso nobile e buono, la cui percentuale di colesterolo è più bassa rispetto alla stragrande maggioranza delle carni rosse prodotte nel mondo.

Gustare il manzo Kobe, è un’esperienza che vale la pena fare almeno una volta prima di morire, perché ha un gusto unico che non si scorda più, una consistenza che ridefinisce il senso del “si scioglie in bocca”.

In pratica un burro che fa bene al cuore ed al palato, gustoso, profumato e un po’ dolciastro.

E’ sublime nella cottura alla griglia, adatto alla pietra lavica, incomparabile nella versione brasato ed unico se mangiato crudo. Una goduria.

Il vostro portafogli potrebbe però protestare ed indurvi a desistere perché effettivamente il Kobe costa un bel po’. La carne può arrivare ad un prezzo che va oltre i € 1000/kg ed una bella bistecca al ristorante potrebbe costarvi anche € 300.

Viene da chiedersi: Perché il manzo Kobe è così buono? E perché costa così tanto?

Presto detto. Al di là di essere un toro castrato (e questa vi assicuro è l’unica nota dolente per il caro bovino) o una scottona (una mucca che non abbia partorito) gli allevatori di manzo Kobe, riservano ai loro capi di bestiame un trattamento che nemmeno Chiara Ferragni durante la fashion week.

Lo scenario è il seguente: Il nostro amico Kobe, vive in un arcipelago di natura vulcanica e montuosa, in una rigogliosa pianura con le cime innevate sullo sfondo, alberi di ciliegio in fiore, prati verdi e lussureggianti in cui bivacca fronte mare.

Ha un bel manto nero e lucido costantemente spazzolato, si nutre di riso, fieno e grano selezionati, beve birra a più non posso e non può mai e poi mai superare il peso di 470 kg; praticamente è il Jason Momoa1 delle razze bovine.

In considerazione della loro stazza e dello stile di vita rilassato, per sopperire alla limitata attività fisica svolta (considerate che non possono nemmeno fare all’amore) i dolcissimi Kobe vengono costantemente coccolati ed addirittura massaggiati per garantire un idoneo risveglio muscolare e sopperire all’inattività.

Coccolati, ben nutriti e con una final destination che – a quanto si dice- rispetta la dignità ed il benessere fisico e mentale dell’animale (ma di questo – ahinoi- non avremo mai contezza); è quindi scontato che la carne che si ottiene da questa filiera produttiva sia di altissimo livello.

A conti fatti, essere un Kobe, non è poi così male.

A pensarci bene, se mai un giorno in virtù della vita che ho condotto dovessi reincarnarmi in un quadrupede, vorrei proprio essere un Kobe.

Avrei cibo, alcool e massaggi tutto il giorno, una forma perfetta senza praticare sforzi, un panorama da urlo con vista sull’oceano e mi avvierei alla morte con Angel di Aretha Franklin in sottofondo.

E con buona pace di Foscolo, sarei ricordato da tutti e per sempre come l’esperienza più goduriosa delle loro vite.

1 Jason Momoa alias Khal Drogo, protagonista indiscusso della prima stagione de “Il Trono di Spade”.

UNIPA: Non sfornerà lavoratori, ma di politici se ne intende. Micari e Lagalla in prima linea.

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Non tutti hanno avuto la fortuna di entrarci o di conoscere Micari o Lagalla, ma sicuramente tutti conosciamo unipa e le sue gesta.
Meritocrazia lontana, parentopoli in cattedra e studenti spesso messi all’angolo da questi meccanismi. Proprio dopodomani saranno passati 7 anni dal suicidio di Norman Zarcone, il ragazzo che si lanciò dai locali della facoltà in viale delle Scienze, in segno di protesta contro tutte le cattive logiche che da sempre regolano unipa.

RETTORI IN POLITICA:

Da sempre in Italia c’è un binomio tra posti di potere e politica, gli uni sorreggono gli altri e viceversa, anche perchè spesso i posti di potere non derivano dal merito, ma dal sostegno o dall’assegnazione politica. Negli ambienti statali di lavoro(e non), un’idea politica, che ti piaccia o no, devi fartela e se quell’idea deriva dal rapporto che hai con qualcuno, qualcuno che di politica se te ne intende, bhe, il gioco è fatto. Si perchè se ho un amico alle poste,  potrà pagare le mie bollette evitandomi la fila o farmi sapere il modo più conveniente per inviare un pacco.
Ma se invece ho un amico Rettore? eh! che tu sia poliziotto, ingegnere, architetto, avvocato, o perchè no magari un magistrato(tipo la Saguto), probabilmente tuo figlio andrà all’università.
Insomma tutti vogliono un amico Rettore ed un Rettore ha dunque un sacco di amici.

Fai 2+2, il posto di lavoro somiglia tanto ad un ufficio Comunale, un sacco di amici li pronti a votarti, bhe, non resta che buttarsi in politica.
Infatti è così che han fatto il Rettore ed il suo predecessore. Micari attuale Rettore, sarà l’uomo di sinistra, sostenuto dal Pd Renziano, dagli Alfaniani, da Crocetta, dal riconfermato Sindaco Leoluca Orlando e dal suo ex avversario Ferrandelli.
L’ex rettore Lagalla invece non si candiderà più alla Presidenza,  ma avrà un posto di tutto rispetto(Assessore all’istruzione) in caso di vittoria da parte di Nello Musumeci, candidato unico della destra che ha risolto la spaccatura di cui avevamo parlato qui.
Questo non significa che i due candidati utilizzino le loro cariche per fini personali, anzi i due sembrano godere di un’ottima reputazione e storia personale, ma questo è sicuramente l’argomento del momento. Molti si chiedono quanto possano essere complementari le cariche istutuzionali e politiche in questione.

Purtroppo l’ultima classifica delle università italiane, del Il sole 24 ore, vede Unipa alla posizione n°55 su 61 atenei complessivi (qui la classifica), ma siamo certi che nella classifica delle università politicizzate, il primo posto, non glielo toglie nessuno.

 

 

 

In fame we trust

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Di come un sabato qualunque diventa, per miracolo, un momento very important

Oggi la celebrità è una specie di divinità on demand: basta invocarla perché si materializzi e il mondo sia improvvisamente diverso da quello che è di solito.

Lo so perché l’ho vista di recente; l’hanno richiamata sabato sera a Palermo, in via Alloro. Per l’occasione ha assunto le sembianze di un famoso attore romano. Che non era da solo, in effetti, c’erano altri attori con lui, e c’era una troupe – che non è celebrità in sé, ma funziona da moltiplicatore perché ci ha a che fare.

C’è voluto poco perché curiosi e accoliti nei dintorni accorressero per assistere a quella che, come tutte le esperienze mistiche, è un fenomeno autoevidente e non ha bisogno di argomentazioni per essere goduta.
Io ero con un gruppo di amici, è bastato un “sto andando là, mi hanno detto che c’è festino con vippaio” per farci smuovere.

Il luogo dell’apparizione era un bar squallido, di norma molto poco frequentato: fuori dal locale ci ha accolti la piccola folla, euforica e vagamente stordita, di quelli che avevano già preso parte al rito. Ancora non sapevamo chi, non sapevamo cosa: ci siamo fatti strada per vedere.

E una volta dentro, ho visto.

Ho visto un locale di 20 metri quadri scarsi (un bancone, uno scaffale con poche bottiglie, un neon viola ed uno rosso, uno specchio kitsch, il più banale dei cessi in-fondo-a-destra) trasformarsi in tempio dell’ebbrezza e dell’allegria. Ho visto l’attore di cui sopra, insieme ad altri due, cambiare pelle, farsi ora barman, ora deejay. Li ho visti tramutare cicchetti di alcol scadente in ambrosia, un cellulare con Spotify collegato ad una cassa in un coro di sirene. C’erano quaranta gradi, c’era puzza; nessuno sembrava sentirli. Mi sono vista ondeggiare riflessa nello specchio kitsch; insieme a me si dimenava un’orda di estranei sudati, molti di questi erano col cellulare in mano a documentare l’evento e a diffonderlo sui social come discepoli 2.0.

Da agnostica, non sono in grado di dare un giudizio su quello che è accaduto; ho avuto l’impressione che più che reale fosse realistico, come una storia su Instagram. So che mi sono divertita, per la circostanza insolita e per il senso di straniamento.

Rimarrò, com’è prevedibile e forse giusto che sia quando si entra nella sfera dell’irrazionale, con una serie di domande irrisolte.

Cosa passava per la testa delle persone? Erano davvero tutti gasati, emozionati, contenti come sembrava? Si sono sentiti importanti, coinvolti in qualcosa di grande?

Che differenza c’è, realmente, tra i tre dietro al bancone e noi che stavamo davanti? Cosa significa essere famosi?

Cosa distingue chi, in queste situazioni, riesce a immedesimarsi e a vedere tutto ricoperto da una mano smalto dorato, da chi non riesce a dimenticarsi del contesto?

Va bene che erano le tre di notte e c’era un casino, ma lanciare un petardo dall’ultimo piano della palazzina a mo’ di avvertimento non sarà stato un pelino eccessivo?

Pensava a questo, Warhol, quando diceva che tutti avremmo avuto 15 minuti di celebrità? Voleva dire che la popolarità sarebbe diventata una faccenda letteralmente popolare, dei cui effetti si può beneficiare per caso o per osmosi?

E a proposito della frase di Warhol: pare che non sia stata lui a pronunciarla per la prima volta. Però, visto che è diventato famoso per citazioni e contaminazioni, nessuno ci ha mai fatto caso e tutti preferiscono continuare a pensare che sia stata partorita dalla sua mente.

Forse è proprio questo, il punto di tutta la faccenda: la celebrità continua ad attrarci non tanto per quello che è, ma per ciò che vogliamo credere che sia.

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